APPROFONDIMENTI CULTURALI - XLVI                 ANNO XXII, N.3


Presentiamo due contributi collegati al tema del sabato. Il primo è un testo di Piero Stefani tratto da Qohelet: letture e prospettive a cura di E.I. Rambaldi con la collaborazione di P. Pozzi, Franco Angeli, Milano 2006. pp. 99-106.  Il libro raccoglie gli Atti del convegno organizzato dal Centro di Judaica Goren-Goldstein dell’Università degli Studi di Milano svoltosi  il 12-13 maggio 2003 con relazioni di P. De Benedetti, G. Laras, J. Levi, D. Garrone, G. Lissa, P. Stefani, V. Melchiorre, E. Mazzarella, R. Gatti, R. Della Rocca, L. Mazzinghi. Ringraziamo sentitamente l’editore per l’autorizzazione concessaci.

Il secondo sono due poesie tratte dal recentissimo volumetto di Laura Voghera Luzzatto, Fumo e profumo. Prose, poesie. Con una scelta di poesia di Zelda tradotte dall’ebraico, Giuntina, Firenze 2008, pp. 133, € 10. Le due poesie che trascriviamo, tratte dalla sezione intitolata «Approdi», prendono lo spunto da due letture liturgiche del sabato  chiamate rispettivamente Shiràh (la cantica pronunciata dopo il passaggio del Mar rosso – Es 15,1-18 -contenuta nella parashà – sezione - della  Torà denominata Beshallach Es 13,17-17,16) e quella chiamata Jitrò (parashà, Es 18,1-20,26).    

                                                         


Qohelet: un tempo senza sabato

 Nel pensiero occidentale classico e tardo antico sono apparse due celebri e contrapposte definizioni del tempo: quella platonica del Timeo che lo presenta come «una immagine mobile dell’eternità che procede secondo il numero» (Timeo, 36d-37a) e quella agostiniana che lo qualifica distensio animi. La prima attiene alla misura, la seconda alla memoria, all’attenzione e all’attesa. Per essere imitazione dell’eterno secondo la misura dell’ «era, è e sarà», il tempo non può essere che ciclico: nel suo riproporsi deve conformarsi ai moti perenni del cielo; mentre per essere distensio animi il tempo non può essere puro fluire. Se lo fosse, quello scorrere ininterrotto non potrebbe essere neppure percepito. L’anima coglie il tempo in quanto si dilata; essa però non si risolve in quella distensione. Agostino non dice: fluisco dunque sono un fluire. Egli attribuisce il primato al presente. Il presente del passato è la memoria, il presente del presente l’attenzione, il presente del futuro l’attesa. Soltanto per questa via si dà il tempo. L’immagine mobile dell’eterno è la capacità dell’anima di tener assieme passato, presente e futuro. In questa triformità il primato spetta però alla memoria. Essa è il piolo a cui si aggancia la catena della temporalità.

Qohelet, a suo modo, non ignora né l’una né l’altra di queste due dimensioni, le coglie però entrambe sotto un’altra angolatura. Per lui lo scorrere e il fluire mangiano la memoria e affaticano la creazione. La stabilità è solo di Elohim e delle sue opere.  A parte hominis quella inconcussa saldezza non trova alcunché che la possa rifrangere né nella dimensione esterna della misura, né in quella interna della memoria, né, tanto meno, sotto l’egida di un possibile incontro tra memoria e misura. Operazione, quest’ultima, di fatto e di diritto impossibile se il primato spetta all’ordine cosmico, ma che tale non dovrebbe più essere là dove l’esistere  stesso del mondo dipende da un atto creativo di Dio.

  Qohelet afferma che per l’uomo è cosa buona (tov) e bella (jafeh) mangiare e bere  e vedere il bene di tutta la sua fatica (‘amal) da lui compiuta nel numero (mispar) dei giorni di vita che Dio gli dà sotto il sole: in ciò vi è la sua eredità (cheleq)  (Qo 5,17;  cfr. 2,24; 3,12-13, 22; 8,15; 9,7-8). Il tov (a cui non è estraneo il senso di bello) che risuonò con un respiro cosmico nell’atto della creazione è qui ristretto a un ambito antropologico connotato dalla precarietà di una esistenza incapace di autosussistere. Non è opportuno declinare troppo rapidamente questo buono e bello su un piano puramente edonistico. Mangiare e bere sono passaggi indispensabili per continuare ad esistere. Il sì all’esserci della realtà scandito in principio dal ki tov genesiaco (cfr. Gen 1,5.8.10.18.25.31) si restringe ora al bene connesso all’accettazione esistenziale del proprio vivere. La cifra del tempo coincide con  il numero dei giorni della propria esistenza sotto il sole nel corso della quale il frutto del proprio faticoso operare è colto come se fosse un’eredità. Nell’orizzonte della precarietà non si dà alcun legame organico tra l’attività e il suo risultato; se se ne gode il frutto  non è in virtù propria: l’esito è una sorte  che giunge da altro. Colto in questa prospettiva il pensiero del Qohelet è antitetico al tempo della progettazione; in esso non si dà alcuna sicura proiezione verso il futuro.

Questo senso di discontinuità trova conferma nelle righe successive in cui, senza possibilità di equivoci, si ribadisce che il frutto della propria opera può essere goduto solo in virtù della presenza  di un’alterità. Quando Dio dà ricchezza e bene l’uomo è nelle condizioni di goderli come se gli fosse capitata un’eredità (cfr. Qo 5,18). Tuttavia anche questa gioia sarebbe insidiata in modo troppo pungente se si continuasse ad avvertire il nodo alla gola della precarietà. Ecco perché il testo si premura di aggiungere una giustificazione: «Poiché non si ricorderà molto (lo’ harabbeh  jizkor) dei giorni della sua vita perché Elohim lo preoccupa (ma‘aneh) con la gioia del suo cuore» (Qo 5,19). Il senso di una gioia che rende dimentichi dello scorrere del tempo, sulle prime, potrebbe richiamare alla memoria la mirabile sintesi racchiusa in una terzina dantesca: «E però quando s’ode cosa o vede  / che tenga a sé l’anima volta, / vassene il tempo e l’uom non se ne avvede» (Purgatorio IV, 9-11). Tra le due posizioni le analogie sono però labili. In Dante l’argomentazione è squisitamente antropologica: egli vuole provare la tesi aristotelica della non esistenza di una pluralità di anime. Per Qohelet il non avvertire il fluire del tempo è invece singolare dono divino.

Il carpe diem viene da Dio perché esso non conclude un ragionamento basato sulla ferrea legge della mortalità: «mangiamo e beviamo perché domani moriremo» (1Cor 15,32; cfr. Is 22,13). Al contrario, quella gioia che occupa e preoccupa il cuore si presenta come una specie di epoché temporale che consente all’uomo di buttare per un momento alle spalle la sapienza basata sull’enumerazione dei tempi. Per il salmo chiedere al Signore di  imparare a contare i propri giorni rappresenta l’accesso alla sapienza del cuore  (cfr. Sal 90,12);  per Qohelet questa saggezza è invece avvolta nel labile soffio (hevel) di una presa di coscienza legata al proprio venir meno. Per il sapiente figlio di Davide che fu re in Gerusalemme il dono di Elohim si presenta come una specie di dimenticanza opposta all’imperativo antico con cui la voce del Signore comandava dal Sinai il rispetto del settimo giorno. La sospensione temporale sabbatica si sustanzia di memoria: «Ricordati (zakhor) del giorno di sabato per santificarlo» (Es 20,8). Il sabato della creazione implica il ricordo, mentre la gioia che preoccupa il cuore passa attraverso l’oblio.

Fin dall’inizio del libro la ricerca del piacere intrapresa da Qohelet era attribuita al fallimento della sapienza: «indirizzai il mio cuore a conoscere saggezza e scienza, conobbi insensatezza e stoltezza e anche questo non è che un pascersi di vento, perché in molta saggezza vi è molta esacerbata molestia e moltiplicare la scienza è moltiplicare l’affanno. Io dissi nel mio cuore: “Va, ti metterò alla prova con la gioia, vedi il bene”. Ma anche questo non è che un soffio» (Qo 1,17-2,1). La successione prospettata dalla frase è fondamentale: solo dopo che si è esaurita la vana ricerca della sapienza si intraprende, all’insegna di una specie di edonismo senile, il tentativo di darsi al piacere. Ciò trova una precisa corrispondenza nella vicenda di re Salomone il quale da giovane, con un’altissima preghiera, chiede la sapienza per poter rettamente governare il popolo (cfr. 1Re 3,9-15), mentre da vecchio, immerso nel fasto, è sedotto dalla moltitudine delle sue donne (cfr. 1Re 11,4). Per l’autore del Qohelet il gran re diviene perciò simbolo pregnante della successione tra sapere e piacere. Tuttavia, proprio perché l’appello alla gioia nasce sulle ceneri di una vana ricerca della sapienza, il suo esito è segnato fin dal principio. Prendendo avvio dall’impegno a conoscere e non già da un ingenuo e immediato concedersi al piacere, l’itinerario sfocia coerentemente in una conclusione che riconduce entrambe le componenti all’ambito dello hevel. Nell’uno e nell’altro versante, l’operare non porta a nulla, non c’è godimento nella propria fatica (2,10.11). La gioia che occupa il cuore si dà solo quando si accoglie il frutto delle proprie fatiche come se venisse dal di fuori, appunto come un’eredità. Anche per essere appagati dai beni appartenuti a chi non c’è più non bisogna pensare troppo alla morte, che pure è passaggio obbligato perché si realizzi questa possibilità. Se il bene ereditato fosse visto solo come segno di chi è venuto meno, il suo godimento sarebbe, per forza di cose, sopraffatto dalla malinconia. Discontinuità o oblio contraddistinguono la povera gioia che può albergare nell’animo umano.

La mancanza del ricordo e del tempo legato ai sette giorni della creazione e la presenza di uno iato che si incunea tra l’operare e la possibilità di goderne i frutti  collocano la gioia di cui parla Qohelet agli antipodi di quella sabbatica. Il tempo del Qohelet è un tempo senza sabato in quanto, per esso, il solo riposo di cui può godere l’uomo è legato alla sospensione sia della misura sia della memoria.

«Ricordati (zakhor) del giorno di sabato per santificarlo. Per sei giorni farai tutte le tue opere e il settimo giorno è sabato per il Signore tuo Dio, non farai alcuna opera… Perché in sei giorni il Signore fece il cielo,  la terra, il mare  e tutto quanto è in essi e si riposò nel giorno settimo» (Es 20,8-11). Il tempo sabbatico non è vissuto all’insegna della discontinuità e dell’eredità  perché  in esso, in virtù dell’esistenza di un’imitatio Dei, vi  è un collegamento organico tra l’operare e il riposo. Nel precetto sabbatico il comando del riposo è preceduto da quello dell’operare («Per sei giorni farai…»). Anzi, nella versione delle «Dieci parole» contenuta nel Deuteronomio, si afferma esplicitamente che «il Signore tuo Dio ti ordina di fare (la‘asot) il giorno di sabato» (Dt 5,15). Zakhor è imperativo come è imperativo l’operare. L’immagine mobile che imita il divino non è, come nel Timeo, il tempo in se stesso, ma il tempo proprio di un memore operare umano. Il sabato prova l’imitabilità dell’agire creativo di Dio da parte di una creatura che mai come allora, sospendendo la propria opera, si riconosce pienamente come tale. L’osservanza del sabato si presenta come l’incontro tra misura e memoria. Il contare i giorni qui ha bisogno del ricordare e viceversa. Pur non uscendo dal fluire della temporalità si sospende il tempo in virtù non della dimenticanza ma  della memoria e della misura.

Il tempo del Qohelet non conosce il sabato perché non  riesce a fecondare la misura con il ricordo e comandare il ricordo secondo i tempi di un contare non legato ad alcun ritmo naturale. Enumerare secondo la scansione del sette si presenta come un comando connesso alla creazione proprio perché è misura artificiale. A differenza del giorno, del mese lunare o dell’anno solare, il sette non corrisponde ad alcun ritmo naturale (al più può evocare il numero dei pianeti conosciuti nel mondo antico). Il sabato, nell’atto di collegare tra loro il comando di operare, di ricordare e di santificare, congiunge, per così dire, il tempo inteso come immagine mobile dell’eterno riflesso nell’ordine creato con il tempo radicato nella distensione dell’anima. Qohelet però non conosce questo incontro.

L’imperativo zakhor non  compare solo in relazione al sabato. Esso è legato anche al comando di trasmettere la storia delle opere di Dio compiute a favore del suo popolo. La prima fra esse è l’esodo: «Quel giorno sarà per voi uno zikkaron (memoriale)» (Es 12,4; cfr. Es 10,2; 13,3; Dt 9,7; 25,17-19). Israele, ancor prima di essere il popolo della memoria (tutte le genti ricordano), è  la comunità cui è stato ordinato di ricordare. L’eteronomia del comando, che rende la memoria un obbligo operativo, comporta l’assunzione di una responsabilità nei confronti della temporalità. Il trascorrere del tempo va santificato nel sabato e nelle feste. Ciò può avvenire solo a motivo di una fondazione eteronoma legata alle opere e agli imperativi che vengono da Dio: «racconterai a tuo figlio in quel giorno dicendogli: “Per quello che mi fece il Signore quando uscii dall’Egitto”» (Es 13,8; cfr. Es 12,26-27; 13,14; Dt 6,20-25). Di questo Qohelet proclama implicitamente lo hevel «Non vi è ricordo di quanto fu fatto prima e neanche di quel che verrà vi sarà ricordo presso chi sarà ancora dopo» (Qo 1,11). Egli non si confronta con alcuna voce imperativa connessa alla vicenda del popolo, non presta attenzione alcuna alle toledot (storie) che si dipanano di generazione in generazione. Il venir meno della memoria in Qohelet è chiamato in causa per giustificare l’illusione (denunciata nel versetto precedente) stando alla quale nel corso del mondo possa apparire qualcosa di nuovo. Asserire l’esistenza di una novità è solo l’altra faccia della stessa medaglia di non ricordare quanto c’era prima. Peraltro l’affermazione stando alla quale nihil sub sole novi (Qo 1,9) non equivale a celebrare la capacità della memoria di non consegnare al passato quanto è avvenuto. Questa massima esprime solo la profonda consapevolezza della labilità del ricordo. Qohelet  in senso stretto non teorizza alcuna dottrina della circolarità temporale. «Quanto fu sarà, quanto venne fatto verrà fatto. Nulla vi è di nuovo sotto il sole» (Qo 1,9), parole che, più di stabilire la ciclicità del tempo, affermano lo hevel della memoria. Si può dichiarare «vedi, questo è nuovo» (Qo 1,10) solo a causa di un ricordo divenuto debole.

Questa visione generale trova una sua ripresa «autobiografica» nel secondo capitolo, là dove il sapiente dichiara di essere consapevole sia di non potersi sottrarre alla precarietà che lo accomuna allo stolto sia del fatto che sull’uno e sull’altro l’avrà vinta l’oblio. Nei giorni avvenire tutto sarà dimenticato; anche le parole del sapiente non avranno un futuro (eppure quelle di Qohelet, valicando i millenni, sono giunte fine a noi).

La misurabilità del tempo è affidata ai moti celesti. Dio fece i luminari che servono come segni (’otot) per le feste (mo‘adim), i giorni e gli anni (Gen 1,14b). Il tempo lo si misura con lo spazio. Qohelet non propone questo modo di contare perché per lui  non c’è ripetizione armoniosa e costante neppure da parte degli elementi naturali. L’affaticamento, lo scorrere, il girare, il ritornare (più simile alla fatica di Sisifo che all’eterna armonia celeste) riguardano il sole, l’acqua, l’aria: «Sorge il sole e il sole va e torna al suo luogo e là sorge ancora. Va verso il meridione e gira verso il settentrione, girando e rigirando va il vento e sopra i suoi giri è ritornato il vento. Tutti i fiumi vanno al mare, ma il mare mai si riempie, verso il luogo a cui vanno i fiumi, là essi vanno per andare ancora. Ogni realtà si affatica» (Qo 1,5-8). Lo hevel che consuma nella fatica sole, il vento e l’acqua, pare  non toccare l’immota terra che sta per sempre (‘omadet  le‘olam) (Qo 1,4). In realtà questo riferimento non ha alcuna intenzione cosmologica. L’immobilità della terra funge semplicemente da fondale contro il quale si staglia l’inesorabile succedersi delle generazioni: una va e l’altra viene. Tra esse non vi è alcun legame organico, non vi è alcun racconto che si prolunga. Tutto viene dalla polvere e tutto alla polvere ritorna (Qo 3,20). La polvere  (‘afar) diventa in questo libro biblico una specie di versione individuale dell’apeiron di Anassimandro: da dove si esce là anche si ritorna. Allargando il riferimento alle generazioni, la polvere si consolida in una terra che resta impassibile mentre sulla sua faccia si susseguono le generazioni. In Qohelet vi è l’antropomorfismo degli elementi: il sole, l’aria e l’acqua si affaticano; ciò non avviene per la terra non perché qui si muti impostazione. Il discorso resta sempre il medesimo; si tratta solo di un’altra via per dimostrare lo stesso punto: l’hevel dell’adam (uomo).

La curvatura antropocentrica del pensiero di Qohelet è evidente anche nelle quattordici coppie dei tempi adatti e opportuni con cui si apre il terzo capitolo del libro. A volte questi passi sono stati chiamati in causa come sigillo di una supposta visione ciclica. C’è un tempo (‘et) per questo e un tempo per quello: per nascere e per morire, per piantare e per sradicare, per uccidere e per sanare (si noti il corrispettivo attenuato, l’uomo può dar morte, ma non restituire integralmente la vita), per abbattere e per edificare, per piangere e per ridere, per gemere e per ballare, per gettare le pietre e per raccoglierle, per abbracciarsi e separarsi, per cercare e per perdere, per conservare e buttar via, per strappare e per cucire, per tacere e per parlare, per amare e per odiare, per la guerra e per la pace (cfr. Qo 3,2-9): «Per tutto c’è un momento adatto (zeman) e un tempo (‘et) per ogni attività (chefez) sotto il cielo» (Qo 3,1)

 In questo elenco non c’è nessuna allusione all’inverno o all’estate, alla luna  crescente o calante, al  giorno o alla notte. Si è osservato che, per indicare simili alternanze, si fa ricorso a quattordici coppie; i ventotto termini così introdotti possono, a loro volta, essere pensati come il risultato della moltiplicazione di due numeri, sette e quattro, impiegati nel linguaggio biblico per esprimere le due diverse forme della totalità spazio-temporale (sette tempo, quattro spazio). È certo che quelle quattordici coppie indicano un insieme, quale? Per rispondere alla domanda è fondamentale tener presente che, nell’elencazione qui proposta, non ci si trova mai nelle condizioni in cui si danno contemporaneamente entrambi gli estremi: o si pianta o si sradica, o si uccide o si sana, o si abbatte o si edifica e così via. In essi si è sempre di fronte a una netta discontinuità di tempi. È significativo che il termine scelto per indicare tutte le possibilità di quanto avviene sotto il cielo sia la parola chefez (cfr. Qo 3,1.17; 5,7; 8.6) che indica propensione, interesse, amore, opzione, cioè qualcosa che si riferisce a un’alternativa connessa a una scelta. In virtù di questo riferimento si comprende quale sia il criterio che presiede alla successione dei termini: tutte le altre tredici sono articolazioni interne alla prima invalicabile coppia: «tempo per nascere e tempo per morire».

Entro il supremo orizzonte della vita umana si danno le alternative tra piangere e ridere, ricercare e sperdere, custodire e gettar via, strappare e cucire, e così via. Nessun termine si presenta però contemporaneamente al suo opposto: tutti implicano uno scarto connesso a un aut aut e la discriminante imposta da una decisione. Quest’ultima affermazione, è ovvio, non ipotizza affatto nel Qohelet  la presenza di un libero arbitrio: essa vuole solo alludere a una situazione esistenziale che impone all’uomo di stare, in un determinato tempo,  in uno solo dei due estremi contrapposti. È stato Elohim a stabilire in modo insindacabile che esiste l’alternarsi di questi tempi e rispetto a questa ferrea legge il vivente nulla può; tocca però al chefez umano determinare quale sia il tempo che si dà ora, senza tuttavia che questo atto porti con sé l’attestazione della presenza di qualche positiva capacità creativa da parte dell’uomo.

L’alternarsi dei tempi è radicato nell’antropologia in quanto stabilisce che l’azione dell’uomo si fissa in un solo versante. L’operare di Dio ha due mani, fa l’una e l’altra cosa: «Il Signore fa morire e fa vivere, fa scendere allo sheol e fa risalire, rende poveri e arricchisce / abbassa ed esalta» (1 Sam  2,6 ); ma l’uomo può mettere il piede solo in una delle due staffe. Potrebbe percorrere un’altra via soltanto in due modi: o vivendo nella paradossalità del tempo messianico (e nulla è più lontano dal Qohelet di questa prospettiva)[1], o attuando una imitatio Dei grazie alla quale si dà un tempo sabbatico in cui  l’operare si congiunge al cessare: il settimo giorno è il sigillo della creazione e ricapitolazione dei sei giorni dedicati all’operare. Per Qohelet non si danno né l’una né l’altra di queste possibilità. Il venir meno nega il completamento, tutti i discorsi restano a metà e quanto è storto e mancante non lo si può raddrizzare (cfr. Qo 1,15; 7,13).

«Il tutto (ha-kol) fece bello [Dio] nel suo tempo (be‘itto), persino pose nel loro cuore l’idea di globalità [o di durata infinita] (‘olam), ma anche così l’uomo non coglie l’opera che Dio fece dal principio fino alla fine» (Qo, 3,11) [2]. Per l’uomo c’è l’‘et; il «tempo»; per l’operare di Dio c’è l’‘itto, il «suo tempo». Anche se sussistono incertezze nel determinare a chi sia riferito (al «tutto»? a «Dio»?), la presenza dell’aggettivo possessivo contraddistingue comunque un salto qualitativo di primaria importanza. L’uomo opera nel tempo; ma a lui non è dato stabilire, in relazione all’insieme delle cose, il «suo tempo», a lui sfugge la misura della totalità. Secondo il Qohelet (che qui sembra adombrare ante litteram una specie di antinomia kantiana) Dio ha posto nell’uomo il senso della globalità; eppure, nonostante la presenza in lui di questo riferimento, l’uomo resta impastato di hevel ed è quindi incapace di cogliere l’inizio e la fine dell’operare divino. Il senso dell‘olam posto nel cuore significa che, pur essendo costretta in uno dei due poli, la creatura umana non si identifica completamente con quello in cui si trova ora. Il saggio non vive nella concentrazione dimentica dell’istante. Se così fosse, per lui si realizzerebbe una specie di ‘olam puntiforme posto al di là di ogni senso dello hevel. Egli sarebbe come la scrofa di cui parla Lutero che, a differenza dell’uomo perennemente morente, non avverte la morte e  non sente altro che «la sola  vita, un’eterna vita»[3]. La creatura umana sa invece che c’è un altro tempo oltre a quello che sta ora vivendo. Esso sicuramente sopraggiungerà. È consapevole che al tempo del vivere  succederà quello del morire; conosce cioè il senso dell’hevel. Sa che c’è un tempo per ogni cosa, ma ignora il «suo tempo». Vedere la misura del  passaggio dall’uno all’altro estremo della coppia è una regola divina inafferrabile per l’uomo. L’opera di Elohim è una totalità a cui non c’è nulla da aggiungere e nulla da togliere (cfr. Qo 3,14). L’agire divino è per sempre (le‘olam); esso consegue una stabilità spazio-temporale inaccessibile alla creatura. Ciò rende impossibile all’uomo compire una imitatio Dei. Per Qohelet le opere divine sono per sempre. Dio non si affatica, né si riposa. Il suo Dio non conosce il sabato; perciò non può donarlo neppure all’uomo.                              

                                                         


 

Shabbàt Shiràh

 

Il cielo blu notte

con le tre stelle

si è portato via Shabbàt Shiràh:

marosi avevano ingoiato allora

cavallo e cavaliere

- sleale fu il Faraone –

e l’acqua scavata nel mare di canne

ecco: un varco

una pista di liberazione.

 

Un muro

Un recinto, uno sbarramento,

per quali spazi di libertà?

 

Invisibile all’orizzonte

La colonna di fuoco.

 

 Gerusalemme-Kfar Saba, 18 gennaio 2003

 

 

Shabbàt  Jitrò

 

 Frusciano piano le pagine in carta  india

del mio chumàsh

fitte di parole

fiume che scorre e scolpisce

l’antica storia

e si dirada la scrittura

dove – cadenzate – risuonano

le Dieci Parole.

 

Si legge a capo pagina

solitaria nell’arto dello spazio bianco –

               lo tirzàch!

Onomatopea del divieto solenne

Di spegnere una vita:

appunto tu uomo

appunto tu donna

avete succhiato dall’albero la mela

compagni di bene e di male

           e  date la vita –

                  tu

come puoi essere tu, un assassino?!

 

Venezia, gennaio 2003

 

 

Shabbàt Jitrò alla  Scola Levantina.

Chumàsh; i cinque libri della Torà, il Pentateuco.

Lo tirzàch, non uccidere (Es 20,13).


 

[1] Giorgio Agamben  ha proposto di leggere la  compresenza paradossale degli estremi prospettata dalla paolina prima lettera ai Corinti come un rovesciamento delle coppie del Qohelet. Il fatto che quelli che piangono è come se non (hos me) piangessero, quelli che godono è come se non godessero e così via (cfr. 1Cor 7,29-31) è visto come un’implicita, e forse non inconsapevole, contrapposizione all’alternanza dei tempi di cui parla Qohelet, in cui c’è un tempo per piangere e uno per ridere, uno per gemere e uno per far festa e via dicendo. «Paolo definisce la condizione messianica semplicemente sovrapponendo, attraverso l’hos me, i tempi che Qohelet divide» (G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 31).

[2] La versione proposta non pretende di essere, in assoluto, la migliore. Il passo contiene ardui problemi di traduzione e di interpretazione; cfr. G.L. Prato, Il tempo e la storia nella Bibbia, in L. Bertazzo (a cura di), Il tempo e i tempi della fede, Edizione Messaggero, Padova 1999, pp. 101-105.

[3] M. Lutero, Degli ebrei e delle loro menzogne, a cura di A. Malena, Einaudi, Torino 2000,  p.225.