APPROFONDIMENTI CULTURALI – XLIX                                                                             (ANNO XXIV, N.3)

 

Ringraziamo Ettore Franco per questo contributo, originariamente  preparato per un incontro svoltosi all’Eremo di Monte Giove (Fano) il 24 luglio 2009

 

 

L’universalità della profezia postesilica (Is 56-66)

 

Premessa

L’universalità nella profezia postesilica ha bisogno di una duplice contestualizzazione: quella storica della Terra d’Israele sotto il dominio persiano attorno agli anni dopo il 520 e dopo il 450 circa a.C.[1] e quella letteraria e teologica di Is 56-66 (il cosiddetto Tritoisaia) nell’intero rotolo di Isaia e nel solco della tradizione profetica.

Conosciamo la situazione molto precaria in Palestina, aggravata, dopo l’ascesa al trono di Serse nel 486, che allarga la frattura già profonda sia tra residenti, considerati come «estranei», e i rimpatriati, e soprattutto tra ricchi possidenti e poveri ridotti in miseria fino alla schiavitù per debiti (Ne 5). Alla crisi si cerca di reagire con un processo di integrazione che porta il segno della riforma di Neemia (e poi di Esdra) con la fissazione della Torà canonica come base giuridica della società.[2] L’identità giudaica non è più territoriale ma tribale, fondata sul sangue e legata all’osservanza della Legge.[3] Il rifiuto dei matrimoni misti e la separazione dagli stranieri (Esd 10-11) rischia di innescare una concezione esclusivista dell’elezione e del patto.

La profezia, ignorata dal partito riformatore sacerdotale e riconosciuta almeno in parte, dal partito laico deuteronomista,  rilegge la situazione alla luce degli scritti profetici precedenti e annuncia un intervento definitivo di Dio che sconvolge la società e la storia[4].

Tra le tante ipotesi sulla composizione, trasmissione e redazione di Is 56-66, dal commentario di Duhm del 1892 ad oggi, — a prescindere dall’ultima originale spiegazione di Schniedewind che riprende la teoria di un unico autore per Is 40-66[5]: quella di un discepolo-editore del Deuteroisaia[6], o di un tradente fedele della tradizione di Isaia[7], o di una pluralità di autori[8] ... — mi sembra convincente la tesi che riconosce una ripresa, rilettura e attualizzazione della “universalità” nella particolare figura della “discendenza” del Servo e della Partoriente di Is 40-55[9], cioè in un gruppo anonimo e marginale, “la comunità del Servo”, che non si oppone all’integrazione, ma la fa esplodere dal di dentro.

Quanto all’articolazione, nonostante qualche riserva[10], c’è una certa convergenza tra gli studiosi nell’individuare una struttura di tipo concentrico[11]:

61

60      Sion     62

59,15-21                   63,1-6

59,1-14         giustizia –salvezza             63,7-64,11

56-58                         esodo sul posto                  65-66

Questa visione d’insieme permette di cogliere gli schemi soggiacenti che articolano l’universo semantico del testo e ne dischiudono il messaggio. Bisogna però che, oltre all’intero rotolo di Isaia col magnifico poema di Is 2,2-4  e soprattutto Is 19,16-25 (19,24: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra») richiamiamo nel cuore non solo il racconto meraviglioso di Giona, ma anche Ag 2,6-9; Zc 8,20-23 e 14,16-21; Sof 3,9 «Allora io darò ai popoli un labbro puro, perché invochino tutti il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla».[12] Né va dimenticata la preghiera di Salomone: «Anche lo straniero... se egli viene a pregare in questo tempio, tu ascolta nel cielo, luogo della tua dimora, e fa’ tutto quello per cui ti avrà invocato lo straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome ...» (1Re 8,41-43; // 2Cr 6,32-33) e si può risalire fino ad Abramo: «in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3).

 

1. L’universalità nell’oracolo di apertura (Is 56,1-8)

Gli imperativi rivolti ad ogni ascoltatore lettore aprono una nuova tappa: bisogna prepararsi «osservando il diritto e praticando la giustizia» perché sta per arrivare la salvezza che Dio rivela attuando per tutti la sua giustizia (56,1). L’apertura universale è la novità di questa rivelazione che coinvolge ogni uomo nel suo essere e agire. La formula della beatitudine (56,2), rara nei profeti, qualifica la nuova identità per ogni “uomo” che attua la giustizia come dono e compito e ritrova l’autentica relazione con l’altro (Dio, il prossimo e la creazione) nel tratto distintivo dell’israelita che «osserva il sabato» (56,2c.4b.6d) come segno dell’alleanza (cfr. Es 31,13.17). In questo «segno», la cui osservanza qualifica eunuchi e stranieri che hanno aderito al Signore (Is 56,4.6), potranno ritrovarsi insieme Israele e Nazioni nel nuovo ordine che fa passare dalla separazione (56,3) all’inclusione e dall’esclusione (Esd 9,1; 10,11.16; Ne 9,2) all’incorporazione (56,3.6; cfr. Is 14,1; Zc 2,15). L’apertura del testo profetico sembra alludere, per contrasto. alla chiusura di Neemia ed Esdra. Quando? Non alla fine, né in un futuro indeterminato, ma adesso poiché c’è un “oltre” nel fare di Dio, sempre impegnato ad aggregare altri insieme a quelli già radunati (56,8).

Il cambiamento epocale, annunciato (56,1b) per motivare gli imperativi iniziali (56,1a) e confermato dal macarisma per ogni uomo (56,2) e dall’impegno finale di Dio che continua e continuerà a radunare (56,8), è concretizzato in due casi particolari, incastonati al centro secondo la tecnica della reversio: straniero – eunuco / eunuchi – stranieri (56,3a.b / 4-5.6-7). All’eunuco, qualificato come nel macarisma per ogni uomo (56,2) dall’osservanza del sabato, da scelte secondo i progetti di Dio e dalla fedeltà all’alleanza (56,4), Dio regala “un posto e un nome”, cioè un’identità cultuale nel cuore della città che è il tempio (“la mia casa”) e un’identità sociale nei rapporti civili (“dentro le mie mura”), “un nome eterno incancellabile” (56,5) regalato da Dio e “non più soggetto agli imprevisti della generazione umana”.[13] Per questo gli si proibisce di continuare a lamentarsi della sua non-identità per la mancata discendenza (56,3c).

Gli stranieri che hanno aderito al Signore, cioè «tutti coloro che osservano il sabato per non profanarlo» (56,6d ripresa letterale della qualifica universale del macarisma 56,2c) e «restano fermi nella mia alleanza» (56,6e ripresa letterale della qualifica degli eunuchi 56,4) saranno condotti da Dio sul suo monte santo, e colmati di gioia nella sua casa di preghiera, dove offriranno olocausti e sacrifici graditi. L’universalità dell’accoglienza nella casa di Dio è espressa dal nome nuovo «casa di preghiera per tutti i popoli» (56,7 cfr. la citazione in Mc 11,17; // Mt 21,13; Lc 19,46). Per questo allo straniero viene proibito di continuare a dire: «certamente mi escluderà il Signore dal suo popolo» (56,3). Non può sfuggire il contrasto con Ez 44,9: «nessuno straniero, non circonciso di cuore, non circonciso di carne, entrerà nel mio santuario, nessuno di tutti gli stranieri che sono in mezzo ai figli di Israele».

Per quanto l’aspetto cultuale sembri prevalente, non dobbiamo dimenticare che l’osservanza del sabato (e non la circoncisione) come segno dell’alleanza è inquadrata nel contesto della giustizia, cioè delle relazioni autentiche che manifestano la concretezza della salvezza rivelata e annunciata.

Qui è importante una particolare insistenza nella qualifica degli stranieri: essi non solo hanno aderito al Signore «per servirlo e amare il nome del Signore» (56,6) termini che richiamano la predicazione deuteronomica[14] (cfr. ad es. Dt 10,8.12) ma anche «per essere suoi servi» (56,6). Come può uno straniero diventare “servo del Signore”? «Osservando il sabato e restando fedele all’alleanza», il che implica soprattutto l’attuazione del diritto e della giustizia, secondo Dio e non secondo gli uomini. L’apertura universale si attua attraverso un giudizio che discerne l’identità di chi agisce «come servo» rispetto a chi agisce «come padrone» aggravando sempre più le non-relazioni dell’ingiustizia.

È interessante l’intuizione di Wim Beuken, secondo il quale la qualifica «servi» estesa agli stranieri — come ripresa e sviluppo di Is 54,17 che a sua volta riprende la “discendenza” (53,10) e “giustizia” (53,11) del “Servo del Signore” —, è la questione centrale di tutto il cosiddetto Terzo-Isaia da 56,6 a 66,14[15].

 

2. Popoli, servi e giustizia nell’universo semantico di Is 56-66

«Servi» perciò sarebbe un titolo onorifico. Come intendere allora le affermazioni: «Stranieri ricostruiranno le tue mura, i loro re saranno al tuo servizio» (60,10; cfr. 61,5)? L’integrazione degli stranieri consisterebbe solo in una forza lavoro utile  per dei «servi» divenuti «padroni»? È questo il cambiamento epocale della giustizia che si rivela?  Il testo rifiuta una simile interpretazione perché esplicitamente afferma un «riconoscimento» che dice relazione di reciprocità nella differenza: «Sarà famosa tra le genti la loro stirpe […] Coloro che li vedranno riconosceranno che essi sono la stirpe benedetta dal Signore» (61,9). Potranno forse gli stranieri diventati «servi del Signore», essere incorporati in questa «stirpe benedetta»? E come?

Per articolare la risposta che il testo continua a offrire dopo l’oracolo iniziale, cerchiamo di cogliere, nelle relazioni strutturali tra alcuni campi semantici, i nodi della trama che unifica l’intero testo e ne dischiude il messaggio.

a) popolo/nazioni

Il termine ‘am (complessivamente 22x) si trova 17x al sing.[16] qualificato positivamente come «popolo santo»[17], ma anche negativamente come «popolo ribelle»[18] e «popolo che mi provocava» [19], spesso determinato da un suffisso di appartenenza o di relazione (7x «mio»[20]; 3x «tuo»[21]; 2x «suo»[22]); designa quindi il popolo dell’alleanza; al plurale ricorre solo 5(-1) volte.[23]

Il termine goj (complessivamente 20x) ricorre 5x al sing. riferito sia a Israele (58,2) in contesto polemico, sia a nazione in genere (62,22; 66,8), a un popolo straniero (60,12) o che non invoca il Nome del Signore (65,1); mentre al plurale ricorre 15x sempre riferito alle nazioni o popoli stranieri. [24]. Solo una volta si trova il termine “nazioni” in 60,2.

Il rapporto popolo/nazioni sembra determinante nei capitoli centrali 60-62 e in quelli finali 65-66, mentre è assente in 59 ma non in 63-64. Come si precisa l’identità e l’appartenenza al “popolo dell’alleanza”? E come possono gli stranieri esservi incorporati o partecipare della salvezza che sta per venire?

b) servi/discendenza

Il termine «servi» ricorre altre 9 volte, sempre determinato dal suffisso di appartenenza o relazione: 6x «miei»[25]; 2x «suoi»[26]; 1x «tuoi»[27], tutte nell’ultima parte (7x in 65 e 1x in 66,14 ma anche in 63,17). [28] C’è anche però il verbo «servire» in 60,12 riferito al popolo o regno che perirà perché non vuole servire Sion e alle nazioni che saranno sterminate. [29]

Se seguiamo le 10 ricorrenze di «seme, discendenza», vediamo che questa, oltre che nei capitoli finali (3x)[30], è determinante anche nella prima parte (3x) [31], dove negativamente è qualificata «progenie di un adulterio e di una prostituta» e «prole bastarda» (57,3 e 4), — chiaro rimprovero a una generazione infedele e ingiusta rispetto a quella di chi confida nel Signore (57,13) —, mentre positivamente qualifica la generazione «giusta» che partecipa di una vocazione profetica (59,21), quella del profeta-messaggero del cap. 61, una stirpe/discendenza riconosciuta tra i popoli come stirpe benedetta (61,9).

Nella preghiera penitenziale o lamento di 63,7-64,11 — dove si sottolinea con forza la paternità di Dio rispetto al suo popolo (3x ci si rivolge a Dio chiamandolo “padre nostro”[32]) e Dio qualifica il suo popolo come “figli che non agiscono con falsità” —, il termine “servi” è in parallelo con «eredità»: «Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi per amore delle tribù, tua eredità» (63,17). Ma se il lamento nasce in una situazione disperata, causata proprio dai figli ribelli (63,10; 64,4[5]) come si può ristabilire la giustizia e attendersi salvezza? Quale speranza dopo le disillusioni in una situazione ancora disperata?

c) giustizia/salvezza

Nel prologo la «salvezza» che sta per venire e la «giustizia» che sta per rivelarsi (56,1) sono qualificate dal suffisso possessivo «mia»; si tratta cioè della salvezza che Dio sta per operare attraverso la sua giustizia. Su questa motivazione, che annuncia una svolta nella storia, si basa l’esortazione «osservate il diritto e praticate la giustizia» (56,1). Complessivamente il termine “giustizia” ricorre 20 volte (13x zedaqà [33] e 7x zedeq [34]) e solo 3 volte «giusto»(in 57,1[bis] e 60,21) ed è determinante soprattutto per la prima (56,9-59,21) e in parte per la seconda sezione, quella centrale (60,1-63,6); nella terza (63,7-64,11) si trova solo in 64,4 e nell’ultima (65-66) mai.

Negli stessi contesti si trovano spesso i termini della «salvezza» che complessivamente ricorrono 13 volte (5x jeshua [35], jesha‘ 2x [36] e 6x la radice jsh‘ [37]). In tre di questi contesti che associano, come nel prologo, giustizia e salvezza troviamo anche i termini «benessere, pace» (8x shalom [38]) e «luce» (8x il termine ’or [39]; e 2x la radice ’or [40]); e almeno in due testi l’immagine del «giardino»[41] e dello «spuntare, germogliare».[42]

Una prima sorpresa è che il vocabolario della «giustizia/salvezza» è concentrato nei capp. 57-59 e 60-63 o, secondo l’articolazione proposta da Beuken, nelle prime due sezioni 56,9-59,21 e 60,1-63,6, dove abbiamo visto assente il termine «servi» ma presente quello di “discendenza”. La giustizia è quindi determinante per essere fuori o dentro la discendenza del Servo. Sarà questo il tratto distintivo che renderà possibile l’apertura universale?

Fin dall’inizio viene fotografata una situazione in cui «Il giusto è tolto di mezzo a causa del male» (57,1) La motivazione è in un «conflitto di interessi» perché tra i responsabili, denominati «pastori», «ognuno segue la sua via, ognuno bada al proprio interesse senza eccezione» (56,11b, cfr. 53,6). Dio prende l’iniziativa contro i «figli della maliarda, i figli bastardi» (57,3.4) smascherando l’ingiustizia della madre. Il litigio di Dio minaccia, ma invita anche a discernere e cambiare orientamento di vita perché è sua intenzione «sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni» (57,18). «Ai suoi afflitti io pongo sulle labbra ‘Pace, pace ai lontani e ai vicini’ – dice il Signore – io li guarirò» (57,19) mentre “non c’è pace per i malvagi – dice il Signore” (57,21).

Nel secondo litigio-rimprovero si oppone l’egocentrismo umano che vuole coinvolgere Dio nei propri interessi e affari (58,2-4) al volere/scelta di Dio sull’autentico digiuno che consiste nelle opere di giustizia (58,5-7). Entrando e attuando il volere di Dio si ha un’esistenza autentica e piena, espressa con le immagini della luminosità (aurora 58,6; meriggio 58,10b), del giardino irrigato e della sorgente che non si secca (58,11). Anche il sabato, liberato dai «tuoi interessi», diventa delizia che fa trovare la delizia del Signore (58,13s).

La liturgia penitenziale che segue pone al centro la giustizia per colmare il solco scavato tra Dio e il suo popolo (59,2). Colpisce come le parti del corpo insieme ai vestiti traccino l’identikit di una situazione di ingiustizia: «palme macchiate di sangue, dita di iniquità», «labbra menzognere, lingua che sussurra perversità» (59,3); si concepisce malizia, si genera iniquità (59,4); i teli sono opere che non possono vestire, coprire (59,6); i piedi vanno verso il male per spargere sangue innocente (59,7); gli occhi non vedono e fanno inciampare e cadere (59,10); per questo «non conoscono la via della pace/benessere, non c’è giustizia nel loro procedere» per «sentieri tortuosi» (59,8). Nella confessione si riconosce la mancanza di diritto e giustizia e il camminare nelle tenebre al posto della luce sperata (59,9). Anche Dio però appare nella sua autenticità attraverso le parti del corpo e i vestiti: la mano non è troppo corta per salvare, né l’orecchio incapace di ascoltare (59,1) i suoi occhi vedono (59,16) il suo braccio lo soccorre e la sua giustizia lo sostiene (59,16), indossa come corazza la giustizia, come elmo la salvezza, avvolto da un mantello di zelo (59,17). Viene per giudicare e per salvare.

Questa è la sua venuta luminosa del cap. 60 che fa risplendere Gerusalemme (60,1-2) di luce eterna (60,19-20), come centro di attrazione per le genti (60,3) che potranno entrare per le sue porte sempre aperte (60,11). Il nome nuovo «Città del Signore, Sion del Santo d’Israele» (60,14) come riconoscimento dei popoli, le farà conoscere per esperienza chi è il suo Signore: “il tuo Salvatore” (60,16), che ti darà come sovrano la pace e come governatore la giustizia (60,17). E diventata simile a lui, «chiamerai salvezza le tue mura e gloria le tue porte» (60,18) e «il tuo popolo sarà tutto di giusti ... germogli della piantagione del Signore» (60,21).

La splendida visione luminosa della città ritorna nel cap. 62, proclamata però da un messaggero che non si dà pace e non lascia in pace Dio, con le sentinelle che ha posto sulle sue mura, finché non abbia realizzato il suo progetto di fare di Gerusalemme, città di pace e di giustizia, il centro di attrazione di tutta la terra (62,7). E nel gran movimento segnato dalla serie di comandi che culminano nell’innalzare un vessillo per i popoli (62,10) riecheggia fino alle estremità della terra l’annuncio del messaggero: «dite alla figlia di Sion: Ecco, arriva il tuo salvatore» (62,11).

Chi è questo messaggero? Colui che, in continuità con la figura del Servo del Secondo Isaia, è consapevole di una vocazione e missione profetica da parte del Signore che «mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto» (61,1b-3)[43]. Proprio i miseri, gli schiavi e prigionieri per debiti, tutti gli afflitti e ogni persona che voglia aderire al Signore per essere suo servo (56,6) saranno chiamati «querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria» (61,3b), «sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio» (61,6). Questa stirpe e la loro discendenza con cui il Signore conclude un’alleanza eterna (61,8) sarà famosa tra le genti, in mezzo ai popoli (61,9). Perciò, prendendo la parola, questa stirpe/discendenza dei «servi» esulta, come Sion, nel Signore, che l’ha «rivestita delle vesti della salvezza, l’ha avvolta con il mantello della giustizia come uno sposo ... come una sposa»(61,10).

Si comprende allora la portata universale dell’ultima affermazione sulla giustizia che riconosce e annuncia come Dio va alla ricerca dell’uomo: «tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie » (64,4).

 

3. Il succo del grappolo, una benedizione per tutti

La risposta di Dio conferma e rilancia questa apertura universale: «Mi feci cercare da chi non mi consultava, mi feci trovare da chi non mi cercava» (65,1). Si risente come eco l’esortazione di Is 55,6 “Cercate il Signore mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino”. Ma qui c’è una novità: il Signore dice «sono qui, sono con te» a una nazione lontana, che non invocava il suo nome, non lo cercava e non chiedeva nulla a lui (65,1).

La giustizia di Dio nella storia attua il suo giudizio contro «il popolo ribelle» (65,2) all’interno del quale ci si crede giusti preoccupandosi dei propri affari e della propria «santità» e dove si tende a escludere chiunque non sia della stessa cerchia o non abbia gli stessi interessi. E mentre qualcuno, probabilmente un sacerdote o un levita, dice: «sta lontano, non accostarti a me, perché io sono più santo di te» ( 65,5 [44]), Dio invece alla fine, non solo «verrà a radunare tutte le genti e tutte le lingue» (66,18b) e manderà i loro superstiti alle genti di Tarsis [la Spagna?], Put [la Libia LXX], Lud [la Lidia], Mesech [la Frigia LXX], Tubal [la Cilicia], Iavan [la Grecia] e alle isole lontane per annunciare la sua gloria (66,19)[45], ma arriva a dire: «anche tra loro mi prenderò sacerdoti e leviti» (66,21). Insieme al giudizio contro “i fratelli che vi odiano e vi respingono a causa del mio nome” (66,5), vi è un ribaltamento della situazione: «Ecco i miei servi gioiranno e voi resterete delusi; ecco i miei servi giubileranno per la gioia del cuore e voi griderete per il dolore del cuore» (65,13-14): l’impegno di Dio contro l’ingiusta chiusura esclusivista si manifesta in una nuova creazione: «io creo nuovi cieli e nuova terra ... creo Gerusalemme per la gioia» (65,17.18b), che è insieme una nascita straordinaria (66,7-9) e soprattutto un nuovo esodo (65,9).

«Io faro uscire una discendenza da Giacobbe da Giuda un erede dei miei monti. I miei eletti ne saranno i padroni  i miei servi vi abiteranno». Non si tratta più dell’uscita dall’Egitto per entrare e prender possesso della terra promessa, come nel primo esodo, e neppure dell’uscita da Babilonia per ritornare a Gerusalemme come nel secondo, ma si tratta di un «esodo sul posto» [46], cioè dell’uscire da se stessi «abitando insieme» e «attuando la giustizia» per entrare e aver parte alla salvezza o del non uscire da se stessi, tutti presi dai propri interessi, attuando ingiustizia, esclusione, sopraffazione e violenza per entrare e scomparire nella perdizione (cf 65,15; 66,24). L’esodo sul posto, come nuova creazione e rinascita straordinaria, coinvolge direttamente Dio nella storia attraverso un piccolo gruppo, «i suoi servi»: questi «saranno chiamati con un nome altro» (65,15). Il nome nuovo implica nascita ed esistenza nuova, trasparenza e rappresentanza del modo di essere di Dio che d’ora in poi anche lui ha un nome altro, si chiama infatti «Dio-Amen», Dio fedele (65,16).

Il ruolo e il senso del piccolo gruppo dei «servi», che con la loro «discendenza» prolungano e attuano la figura del Servo (Is 53) e della Partoriente (Is 54) del Secondo Isaia e che nella trama dei capp. 56-66 assume un ruolo determinante per la giustizia all’interno e l’apertura all’esterno, espresse fin dall’inizio con «il posto e il nome» incancellabili dell’eunuco (56,4-5) e l’accoglienza degli stranieri condotti da Dio sul suo monte santo (56,3.6), è racchiuso in una piccola «parabola» (65,8) che si presenta come sviluppo del canto della vigna di Is 5,1-7 e della ripresa in 27,2-6[47].

«Dice il Signore:“Come quando si trova succo in un grappolo, si dice: “Non distruggetelo perché qui c’è una benedizione” così io farò per amore dei miei servi per non distruggere ogni cosa».

Se  la domanda su chi siano i servi, discendenza del Servo e figli di Sion, è centrale nel Terzo Isaia, nella metafora del grappolo abbiamo la risposta. I «servi» sono una «discendenza» che Dio fa uscire da Giacobbe e l’«erede» che Dio fa uscire da Giuda, cioè «quanti Dio sceglie» perché ereditino i suoi monti e vi abitino come suoi servi (65,9) o, con le due personificazioni del prologo «l’eunuco», cioè un discendente senza discendenza, e «lo straniero», un dislocato senza identità, oppure nella comunicazione profetica del Terzo Isaia «tutti gli afflitti» (61,2; cfr. 57,18 e 66,10). Proprio a persone come queste viene proposto e annunciato l’esodo sul posto che, nell’attuazione della giustizia, rende possibile o almeno tende a rendere possibile l’attuazione del progetto di Dio che vuole venire «per radunare tutti i popoli e tutte le lingue» (66,18).

La “benedizione” del succo nel grappolo è rappresentata quindi per tutti dagli «eletti», i «servi» che «abitano» con Dio nel cuore di Sion come centro di attrazione universale e in ogni luogo della terra. Nel succo del grappolo d’uva c’è già la concretezza storica e il modello della realizzazione definitiva di quanto annunciato, fin dall’inizio, dal macarisma (56,2) e dai due casi dell’eunuco e dello straniero (56,3-7). Il piccolo gruppo dei «servi», eredità del Servo e figli della Partoriente, ha il compito di «presentificare» il patto per l’umanità. È la logica della promessa che Dio, a conclusione del litigio-giudizio contro i «figli della maliarda, progenie di un adulterio e di prostituzione»(57,3-13), positivamente rinnova a chi confidando in lui: egli  «possiederà la terra» ed erediterà il suo santo monte (57,13), e, annunciando l’appianamento della strada/cammino del suo popolo (57,14), rivela la sua condiscendenza per vivificare spirito e cuore di oppressi e umiliati (57,15). [48]

«Così parla l’Alto e l’Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo. “In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi”»

La discendenza dei servi si identifica quindi per il Terzo Isaia con coloro che Dio sceglie nel resto di Israele e tra le nazioni affinché, vivendo sempre di nuovo l’esodo sul posto nella fedeltà del patto, cioè nella giustizia, contribuiscano al benessere dei «figli» consolati in Gerusalemme e nei cieli nuovi e terra nuova. La  benedizione del succo del grappolo non è esclusiva d’Israele, ma inclusiva di tutti i popoli. [49]  Per tutti, sia dentro che fuori d’Israele, nella benedizione del succo, Dio si impegna a non distruggere ma a radunare i figli dispersi nel cammino della storia per unificarli alla fine senza annullare la singolarità del più piccolo chicco nel grappolo. Accanto alla discendenza e al nome eterni dei servi-figli davanti al volto di Dio (66,22), rimane, di sabato in sabato e di novilunio in novilunio (66,23), come ammonimento e abominio per tutti la fine dei ribelli (66,24).

 

Conclusione: alla ricerca d’identità in tempo di crisi

Se la rilettura delle figure del Servo e della Partoriente nella «discendenza» dei «servi» «eletti» è la chiave di lettura degli oracoli raccolti in Is 56-66, allora il problema che sta a cuore a questa tradizione profetica è la ricerca di identità in un tempo di crisi. La soluzione si inscrive nella tradizione profetica e nell’intera tradizione d’Israele. Se in Abramo saranno benedette tutte le famiglie della terra (Gen 12,3) è perché Abramo «credette al Signore che glielo accreditò come giustizia» (Gen 15,6) regalandogli quell’identità relazionale che lo identificava «padre di una moltitudine di nazioni» (Gen 17,5) nel nome nuovo, espressione della novità di esistenza scaturita dalla elezione, che è all’origine dell’esodo da se stesso per ritrovare se stesso nella promessa del figlio-discendenza e della terra.

L’identità di Israele nasce dalla «estraneità» dell’elezione che è la convocazione del patto: la sua origine come popolo è nella parola che lo chiama e la sua esistenza dipende dalla fedeltà della risposta. Nel nome «altro» con cui saranno identificati i servi discendenza del Servo, in tempo di crisi rinasce per gli eletti un’identità senza appropriazione, secondo il comandamento di Lv 19,18 «ama il prossimo tuo come te stesso». La comunità dei servi non nasce infatti per affinità elettiva né tantomeno per interessi corporativi, ma è basata sull’intenzionalità della giustizia, di Dio e dei suoi eletti. Per questo è un’identità che paradossalmente custodisce la propria differenza nell’accoglienza dello straniero e del diverso e non nell’intransigenza esclusivista che sostituisce alla giustizia/salvezza l’ingiustizia di una appartenenza escludente e di un’apertura selettiva. [50]

Il miglior commento all’universalità della profezia postesilica credo sia il Sal 67, che nel libro della preghiera quotidiana degli ebrei è scritto, o almeno va pensato scritto, in forma di menorà affinché la luce faccia risplendere l’orante e illumini attraendo i popoli al luogo del raduno dove bere insieme il succo del grappolo, frutto della terra e benedizione per tutti.

Finché si continuerà a pregare con questo salmo e cresceranno gli alberi piantati nel viale dei giusti tra le nazioni a Yad waShem in Gerusalemme, non potrà venir meno la speranza che un giorno «il Signore sarà Uno e il suo nome sarà uno» (Zc 14,9) e tutti i giusti, discendenza del Servo e figli della Partoriente, «servendo il Signore spalla a spalla» (Sof 3,9) entreranno insieme nella «casa di preghiera per tutti i popoli» e riceveranno un posto e un nome eterno che non sarà mai cancellato (Is 56,5.7). Allora la missione del Servo, «luce della nazioni, perché la mia salvezza giunga alle estremità della terra» (Is 49,6), sarà compiuta. Beato chi vive alimentando ogni giorno questa speranza!


 


[1] Cfr. J. Vermeylen, «L’unité du livre d’Isaïe», in Id. (ed.), The book of Isaiah – Le livre d’Isaïe. Les oracles et leurs relectures. Unité et complexité de l’ouvrage (BEThL 81), University Press, Leuven 1989, 11-53, qui 51-53.

[2] Cfr. R. Albertz, Storia della religione nell’Israele antico. 2. Dall’esilio ai Maccabei, Paideia, Brescia 2005 (or. Göttingen 21997), 505.

[3] P. Sacchi, «Storia del popolo ebraico dopo l’esilio», in R. Fabris (ed.), Introduzione generale alla Bibbia (Logos 1) Elledici, Leumann (TO) 22006, 101.

[4] Cf R. Albertz, Storia della religione, cit., 507

[5] W.M. Schiedewind, Come la Bibbia divenne un libro, Queriniana, Brescia 2008 (or. New York 2004), 237. Coerentemente poi propone un’interpretazione di Is 61 come riferito a una figura regale (cioè Zorobabele) con allusioni a 2Sam 7 (238-240).

[6] P.-E. Bonnard, Le second Isaïe. Son disciple et leurs éditeurs. Isaïe 40-66 (ÉtB), Gabalda et Cie, Paris 1972.

[7] B.S. Childs, Isaia, Morcelliana, Brescia 2005 (or. Louisville, Kentucky 2001), 484.

[8] Cfr. Paul-Eugène Dion, Dieu universel et Peuple élu. L’universalisme religieux en Israël depuis les origines jusq’à la veille des luttes maccabéennes (Lectio Divina 83), Cerf, Paris 1975, 85-95: “Rapatriés d’Israël et ‘ralliés’ d’entre les païens”

[9] Willem M.A. Beuken, «Servant and Herald of Good Tidings. Isaiah 61 as an Interpretation of Isaiah 40-55», in J. Vermeylen (ed.), The book of Isaiah – Le livre d’Isaïe (BEThL 81), University Press, Leuven 1989, 411-442; Id., «The main theme of Trito-Isaiah ‘The Servants of YHWH’», in Journal for the Study of the Old Testament 47 (1990) 67-87.

[10] B.S. Childs, Isaia, cit., 489s; anche H.W. Jüngling, «Il libro di Isaia», in E. Zenger (ed.), Introduzione all’Antico Testamento, Queriniana, Brescia 2005 (or. Stuttgart 22004), 662-664.

[11] Cf R. Lack,  La Symbolique du Livre d’Isaïe. Essai sur l’image littéraire comme élément de structuration (AnB 59), Biblical Institute Press, Rome 1973, 125; U. Berges riportato da H.W. Jüngling, «Il libro di Isaia», cit., 664; W. Beuken, «The main theme», cit., 68 d’accordo sull’articolazione concentrica, così ne precisa la struttura: 56,1-8 prologo; sezioni: 56,9-59,21; 60,1-63,6; 63,7-64,11; 65,1-66,14.

[12] Cfr. P. De Benedetti, «Invocare il nome del Signore e servirlo spalla a spalla», in SeFeR 78, aprile-giugno 1997, 3; H. Banse, «Il Patto, Israele, i Popoli. Sfide pronunciate da Leo Beck», in SeFeR 97 gennaio-marzo 2002, 3-9 e 98, aprile-giugno 2002, 3-8.

[13] L. Alonso-Schökel - J.L. Sicre Diaz, I Profeti, Borla, Roma 1984 (or. Madrid 1980), 395.

[14] Ivi.

[15] W.M.A. Beuken, «The main theme», cit., 67-68.

[16] Ivi, 71: “People [‘am] in the singular means in TI, at least indirectly, the people of the covenant cf 56,3; 57,14; 58,1; 62,10.12; 63,8.11.18; 65,2f.10.18f.22”.

[17] Is 62,12; 63,18.

[18] Is 65,2.

[19] Is 65,3.

[20]  Is 56,3; 57,14; 58,1; 63,8; 65,10.19.22.

[21]  ‘Is 60,21; 63,14; 64,8.

[22] Is 63,11;  65,18.

[23] Is 56,7; 61,9 [// nazioni]; 62,10; 63,3 (1QIsa “del mio popolo”sing.).6.

[24] Cfr. rispettivamente 60,3.5.11.12.16;  61,6.9.11; 62,2; 64,1; 66,12.18.19.20.

[25] Is 65,8.9.13.14.

[26] Is 65,15; 66,14.

[27] Is 63,17.

[28] W.M.A. Beuken, «The main theme», cit., 69-75 interpreta l’assenza del termine nelle due parti principali (56,9-59,21 e 60,1-63,6; secondo l’articolazione in quattro sezioni da lui proposta: vedi n. 11) come aposiopesis o reticenza, funzionale a far emergere la centralità della figura dei servi attraverso i concetti di «seme/discendenza» e «giustizia»: «the servants rise up from oppression and sin in order to become the righteous offspring of the Servant» (75).

[29] Is 60,12 sarebbe un’aggiunta tardiva per la maggior parte dei commenti (sul tipo di Zc 14,17-19 per L. Alonso-Schökel, Profeti, cit., 415), ma B.S. Childs, Isaia, cit., 541 sottolinea che “la vera polarità, presente in tutto il Terzo Isaia è tra coloro che si rivolgono a YHWH, inclusi gli stranieri, e coloro che insistono a opporsi alla sua volontà”.

[30] Is 65,9.23 e 66,22.

[31] Is 57,3.4; 59,21; 61,9.

[32] Is 63,16  e 64,7.

[33] Is 56,1 [2x], 57,12 ; 58,2; 59,9 .14 15-16.17 60,17 ; 61,10-11  63,1; 64,5.

[34] Is 58,2.8 ; 59,4; 61,3; 62,1.2 ; 64,4.

[35] Is 56,1; 59,11.17 ; 60,18; 62,1.

[36] Is 61,10; 62,11.

[37] Is 59,1.16; 60,16 ; 63,1 .5 .8 .9 ; 64,4 .

[38] Is 57,2.19[bis].21; 59,8[bis]; 60,17; poi anche in 66,12.

[39] Is 58,8.10; 59,9; 60,1.3.19.20.

[40] Is 60,1 . 19.

[41] Gan in Is 58,11 e gannà in 61,11.

[42] In Is 58,8; 61,11(bis).

[43] Secondo R. Lack, La Symbolique, cit., 130s troviamo qui al punto di svolta, il centro di tutta la comunicazione che articola le sezioni del III Is, da quella centrale (60-62) attraverso quelle medie (59-63) a quelle iniziali e finali (56-58 + 65-66) e viceversa. «Il giudizio sarà la consolazione degli afflitti che hanno posto in Dio tutta la loro esistenza: vedranno l’eliminazione dei malvagi e possiederanno la terra» (131).

[44] Per questa traduzione cfr. Lena-Sofia Tiemeyer, «The Haughtiness of the Priesthood (Isa 65,5», in Biblica 85 (2004) 237-244.

[45] Cfr. Armando Rolla, «Lo straniero nella letteratura biblica del postesilio», in I.Cardellini (a cura di), Lo “straniero” nella Bibbia. Aspetti storici, istituzionali e teologici = Ricerche Storico Bibliche 8 (1996 / 1-2) 145-161, qui 155.

[46] Rémi Lack, La Symbolique, cit.,129.

[47] Cfr. Elzibieta Obara, «Dalla vigna al grappolo. La metafora di Is 65,8 e la sua istanza comunicativa», in Rivista Biblica 54 (2006 /2) 129-157.

[48] Per la discussione delle versioni antiche e interpretazioni contemporanee sulla trascendenza e/o immanenza di Dio in questo contesto cfr. S.W. Flynn, «Where Is YHWH in Isaiah 57,14-15?», in Biblica 87 (2006) 358-370.

[49] E. Obara, «Dalla vigna al grappolo», cit., 148 e 149: “La scelta del Signore non dipende più dall’appartenenza nazionale, ma è ormai relativa alle scelte di ogni singolo individuo. [...] I veri servi del Signore sono ricettori di benedizione la quale consiste proprio nel fatto che essi stessi e la loro discendenza possiederanno i monti di Jhwh e vi abiteranno (65,9)”

[50] Cfr. Armido Rizzi, «L’elezione. Funzione e ambiguità», in Cristina Termini (ed.), L’elezione di Israele. Origini bibliche, funzione e ambiguità di una categoria teologica = Ricerche Storico Bibliche 17 (2005/1) 285-295, qui 295; Id., «“Ama lo straniero”: la paradossale identità biblica», in Filosofia e Teologia 2 (1998) 224-253.