APPROFONDIMENTI CULTURALI - XXV                                                                                                                                  (ANNO XIV, N. 3)

LA SITUAZIONE GIURIDICA DEGLI EBREI
NELL’IMPERO ROMANO

di Alfredo Mordechai Rabello

Il volume, Gli ebrei nell’impero romano. Saggi vari, a cura di Ariel Lewin, Giuntina, Firenze 2001, pp. 334 è ricco di contributi di grande interesse. Essi sono dedicati o a temi significativi e, in genere poco noti, come «I “Timorati di Dio”» di Paul Trebilco (pp. 161-193), «La satira degli ebrei nella letteratura latina» di Dwora Gilula (pp. 195-215), «Il diritto e le feste degli ebrei» di Alfredo M. Rabello (pp. 295-334); o a originali rivisitazioni di temi «classici» come «Riflessioni sul processo a Gesù» di Fergus Millar (pp. 77-97) e «La “grande rivolta”» (sulla guerra giudaica) di Jonathan Price. Si è scelto di trascrivere un ampio stralcio del saggio di Alfredo M. Rabello (studioso di formazione italiana da molti anni docente presso l’Università ebraica di Gerusalemme) dedicato alla situazione giuridica degli ebrei nell’Impero romano (pp. 125-142). Il suo carattere di inquadramento generale lo rende infatti una lettura particolarmente utile in vista del prossimo seminario invernale. Il testo è stato privato delle numerose note.

Rigraziamo l’amico e nostro editore Daniel Vogelmann – di cui non ci stancheremo mai di sottolineare- i grandi meriti culturali – per il permesso concessosi di riprodurre questo saggio



a) Il diritto di cittadinanza (status civitatis)
Gli Ebrei, sia quelli di Eretz Israel, chiamata dai Romani Palestina, sia quelli della diaspora, rappresentavano agli occhi dei Romani una singola entità, chiamata Ethnos. Finché esistette un regno giudaico con cui Roma era legata da rapporti di amicizia ed alleanza, gli Ebrei godettero generalmente dello status di stranieri appartenenti ad una cittadinanza riconosciuta, peregrini alicuius civitatis. Non mancavano gli Ebrei con la cittadinanza romana (cives romani) o perché servi liberati (manomessi) da cittadini romani o per concessione speciale dei governatori, talvolta in seguito a servizio militare; vi erano infine gli ebrei nella posizione di schiavi dei romani (servi).
Il grande storico di Roma, Teodoro Mommsen, seguito da quasi tutti i romanisti della sua epoca, sostenne che i diritti degli Ebrei prima dell’anno 70 E.V. derivavano dal loro stato giuridico di cittadini della nazione giudea residenti all’estero e che quindi dopo la guerra del 70, decaduta la nazionalità giudaica, tutti gli Ebrei sarebbero divenuti stranieri di condizione inferiore, peregrini dediticii; ciononostante essi avrebbero mantenuto i loro privilegi speciali in base alla loro appartenenza confessionale al Giudaismo, riconosciuto come religio licita
La tesi del Mommsen è stata però respinta da Jean Juster, nel suo fondamentale studio Les Juifs dans l’Empire Romain, del 1912; egli sostenne che  anche gli Ebrei fuori della Palestina facevano parte della nazione giudaica e che la libertà di culto degli Ebrei della Diaspora proseguiva a trovare la sua base proprio nei trattati fra Roma e la Giudea, fin dai tempi di Simone Maccabeo (161 a.E.V), insomma nell’amicizia di un tempo. La distruzione dello Stato giudaico non avrebbe influito, secondo il Juster, sullo status civitatis degli Ebrei dell’impero romano, che proseguirono ad essere considerati una nazione (natio) anche dopo il 70 ed a godere di alcuni privilegi come natio; soltanto chi apparteneva alla nazione ebraica poteva godere dei privilegi relativi all’esercizio del culto ebraico. La tesi del Juster è stata ripresa e perfezionata negli studi di Arnaldo Momigliano, Vittore Colorni, Giuseppe I. Luzzatto ed è apparsa anche a me degna di fede.
Il primo caso di riconoscimento da parte dei Romani di una forma di giurisdizione comprendente tutti gli Ebrei, si ebbe quando Giulio Cesare concesse ad
Ircano II il diritto di giudicare le dispute religiose tra Ebrei fuori dalla Giudea. I trattati ebbero anche effetto sulla situazione degli Ebrei della Diaspora, dalla
domanda di estradizione di Ebrei rivolta dal console Lucio a vari stati, su richiesta di Simone Maccabeo, all’ingiunzione inviata da funzionari romani a varie
città greche perché rispettassero la libertà religiosa dei loro concittadini ebrei, in base all’accordo di Cesare con Ircano. Allo stesso modo, rapporti personali di amicizia tra re giudei ed imperatori romani permisero ai primi di intervenire a favore dei diritti dei loro correligionari connazionali.
Tale situazione persistette anche dopo il 70 nella Diaspora, dove i diritti degli Ebrei rimasero immutati, mentre in Giudea molti dei vinti divennero peregrini
dediticii e persero i loro diritti; anche qui però la situazione mutò gradualmente con la riemergenza della giurisdizione indipendente ebraica, che cominciò ad
essere riconosciuta già sotto Nerva e Traiano e specialmente dopo Adriano, finché una forma di autonomia fu ristabilita di fatto sotto i Severi.
Oltre alla loro condizione giuridica rispetto alle autorità romane, gli Ebrei godevano di determinati diritti di cittadinanza locale. Tuttavia l’estensione della cittadinanza romana a tutti i liberi dell’Impero e il graduale inserimento di fatto degli Ebrei nella vita municipale, da un lato, la decadenza della città come centro di vita politica e la sempre minore desiderabilità delle cariche municipali, dall’altro, privarono di significato la questione dell’isonomia. La Constitutio Antoniniana de civitate di Antonino Caracalla, nel 212, concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’Impero, salvo – forse – i dediticii.
La tesi del Mommsen, se accettata, comporterebbe l’inevitabile conclusione che gli Ebrei non sarebbero stati cittadini romani anche dopo il III secolo, opinione però difficilmente accettabile, dato che le leggi barbariche considerano gli Ebrei come cittadini romani ed il Codice Teodosiano 11, 1. 1.0 si riferisce a «Iudaei Romano et communi iure viventes».
Il possesso della cittadinanza romana rendeva il cittadino soggetto alla legge romana: tuttavia i diritti locali non vennero aboliti e continuarono ad essere applicati personalmente ai membri delle diverse comunità politiche. Per quanto riguarda gli Ebrei ciò si manifestò nel continuato uso del diritto privato ebraico, sia prima che dopo la pubblicazione della – Constitutio Antoniniana del 212 e nel riconoscimento di fatto della giurisdizione autonoma ebraica mediante il riconoscimento da parte dello stato delle cariche e degli organi che detenevano l’autorità giurisdizionale presso gli Ebrei. Anche sotto gli Imperatori cristiani del IV e V secolo, nonostante la limitazione dei diritti politici e civili, gli Ebrei continuaronoad essere considerati cittadini romani; tuttavia
i privilegi che consentivano loro di vivere secondo i propri costumi scomparvero poco per volta, salvo quelli relativi al culto, e la giurisdizione autonoma ebraica venne severamente limitata. Tali privilegi vennero ancor più limitati dall’Imperatore Giustiniano (527-565), che abolì anche la giurisdizione ebraica in
materia religiosa (Codice giustinianeo 1, 9. 8; Novella di Giustiniano numero 146 del febbraio 553).

b) I privilegi degli Ebrei
Agli occhi della legge romana il privilegium era una norma giuridica per cui le disposizioni normali non si applicavano o si applicavano diversamente a determinate persone o gruppi. L’osservanza dei principi religiosi ebraici impediva agli Ebrei di compiere atti che erano considerati obbligatori per i cittadini romani – come il culto degli dei o del nume dell’imperatore – o rendeva loro necessario compiere atti che erano vietati ai cittadini romani come praticare la circoncisione o riunirsi in assemblee cultuali.
Il privilegio consisteva dunque nel togliere lo stigma di trasgressione da tali atti od omissioni, nel caso che fossero compiuti da Ebrei.
Sia che si creda alla tesi di una «Magna Charta dei diritti ebraici» basati sui trattati tra la Giudea e Roma, sia che si ponga la base dei privilegi unicamente in disposizioni ad hoc rinnovate periodicamente dai vari magistrati e poi dagli imperatori, è chiaro in ogni caso che la ragione prima della concessione di privilegi va riconosciuta nei buoni rapporti tra Roma e il regno giudaico. Bisogna considerare tuttavia anche altre cause: l’importanza della tradizione stabilita dai re ellenistici e la riluttanza delle autorità romane ad interferire nel modus vivendi delle popolazioni conquistate, più di quanto non fosse strettamente necessario; nonché il fatto della dispersione degli Ebrei, assieme alla loro solidarietà; era perciò importante per Roma mantenere la tranquillità e il buon volere di questa gente, che costituiva una componente fissa della popolazione in tutte le province. Il contrasto tra la legge religiosa ebraica e quella civile imponeva ai dominatori la scelta tra persecuzione e concessione di privilegi, e questa seconda fu generalmente la via scelta da Roma.
Dal punto di vista della legge romana, il particolare statuto dei privilegi si applicava solo a quegli Ebrei che non erano cittadini romani, mentre quelli cittadini
romani erano soggetti alle leggi di Roma, compreso l’obbligo di prestare culto agli dei dello Stato. Di fatto però l’intera nazione giudaica godette di questo statuto sia prima che dopo il 70, come pure dopo la concessione della cittadinanza del 212, con la Constitutio Antoniniana.
Il primo ad investire i privilegi ebraici di veste legale fu Giulio Cesare; gli imperatori successivi li rinnovarono di volta in volta. Anche la guerra del 66-70 non
produsse, a quanto pare, cambiamenti nella posizione dell’Impero: Vespasiano e Tito resistettero alle richieste di elementi ostili agli Ebrei e mantennero lo status quo: anzi la nuova tassa imposta da Vespasiano agli Ebrei a vantaggio del Fiscus Iudaicus, pur nel suo carattere punitivo, paradossalmente fornì una garanzia legale allo status quo, da un lato sanzionando la legalità del culto giudaico e delle sue istituzioni, dall’altro suggellando il diritto dei membri della nazione al godimento dei privilegi giudaici.
Domiziano cercò di allargare la base dei contribuenti soggetti a questa tassa, estendendola da un lato a tutti gli Ebrei che nascondevano la propria origine – compresi probabilmente gli apostati –, dall’altro ai giudaizzanti che non professavano formalmente il Giudaismo.  A tale scopo fu introdotta la pratica della denuncia, il che dette origine ad abusi, dato che era difficile stabilire a che punto l’adozione di usi ebraici diventasse un fenomeno tassabile; inoltre come poteva essere provata l’adesione al Giudaismo, se gli aderenti non si erano sottoposti a circoncisione – come certamente si dovevano comportare, e non per ragioni fiscali, anche molti sinceri simpatizzanti, e a maggior ragione quanti si identificavano con la filosofia ma non con la nazionalità ebraica? Il mite Nerva dissipò l’abuso abolendo la pratica della delazione (egli coniò una moneta con la scritta fisci iudaici iniuria sublata), sicché da allora solo aderenti dichiarati al Giudaismo furono soggetti alla tassa giudaica. Sotto questa triplice condizione – appartenenza alla nazione giudaica, professione del culto ebraico e pagamento di una speciale tassa al fisco giudaico – i privilegi ebraici in materia cultuale vennero mantenuti anche dagli imperatori cristiani, allo scopo di preservare l’esistenza del Giudaismo, dal momento che gli Ebrei si rifiutavano di abbandonarlo, ed essendo considerati dalla Chiesa come «testimoni di verità» (testes veritatis); questa verità per quanto vista dai Cristiani come superata dalla venuta del Cristo, non poteva venire soppressa,
come si faceva invece da un lato con il paganesimo, dall’altro con le eresie cristiane. D’altro canto lo status sociale venne progressivamente degradato mediante odiosa privilegia, cioè discriminazioni aventi lo scopo sia di separare visibilmente gli Ebrei dai Cristiani e dissuadere questi ultimi da lasciarsi attrarre dal Giudaismo, sia di sottolineare la vittoria della religione del «Nuovo Testamento» su quella del «Vecchio», sia infine di spingere gli Ebrei ad abbandonare la veritas giudaica a favore di quella cristiana per sottrarsi alle vessazioni.
La prima questione, in cui il Giudaismo si scontrò con l’ordine e la legge di Roma, fu quella del proselitismo. Gli Ebrei accettavano da sempre nuovi membri nella loro religione, la cui conversione era concepita come una adozione nel seno della nazione giudaica. Pur essendo in linea di principio tollerante di ogni religione, Roma era ostile all’introduzione tra i cittadini di culti contrastanti con la morale e i costumi romani. Non era la pratica di tali culti presso gli originali adepti a suscitare l’opposizione delle autorità, ma il dilagare di riti esotici tra i Romani; ciò non tanto per ragioni morali, quanto per timore che questo fenomeno incanalasse in un’azione comune lo scontento politico e sociale di molti. Così avvenne che il Giudaismo fu confuso in un primo tempo con altri culti orientali e gli Ebrei scacciati da Roma, una prima volta nel 139 a.E.V. e poi di nuovo sotto Tiberio. Poiché il proselitismo religioso non era un crimine, le autorità romane si difendevano così, mediante misure amministrative che colpivano l’intera comunità. Viceversa aveva carattere criminale l’ateismo, ossia il rifiuto di venerare gli dei, di cui si rendevano colpevoli i proseliti al Giudaismo per evitare l’idolatria. L’accusa di ateismo venne insistentemente
sollevata sotto Domiziano, in relazione al culto del numen dell’imperatore; Nerva pur non abolendo la criminalità di tale atto, non consentì al sistema  di delazione contro l’asebeia e i costumi giudaizzanti.  Con Adriano il problema del proselitismo venne posto su una base diversa col divieto della circoncisione, sicché è probabile che la conversione delle donne fosse tollerata, mentre quella degli uomini comportava pene sia per il proselito che per l’esecutore della pratica.
Severo rinnovò il divieto della circoncisione e, secondo Sparziano, uno degli Scrittori della Storia Augusta, «Iudaeos fieri sub gravi poena vetuit. Idem
etiam de Christianis sanxit» alcuni studiosi interpretano questo passo nel senso che l’imperatore avrebbe vietato il proselitismo senza distinzione tra Ebrei e Cristiani, Jean Juster sostiene invece che Sparziano avrebbe alluso al rinnovo del decreto contro la circoncisione e che solo per amore del parallelismo, che erauno stile letterario comune, Sparziano avrebbe me nzionato assieme Giudaismo e Cristianesimo.
Con l’avvento del Cristianesimo venne creato il crimine di apostasia: ferme restando le pene comminate ai violatori della legge sulla circoncisione, ai Cristiani
venne vietato il passaggio al Giudaismo sotto pena di confisca dei beni e di negazione del diritto di fare testamento.
La prima costituzione in proposito è emessa in Occidente da Costanzo nel 357; ma è difficile credere che Giuliano l’apostata ne abbia promosso l’estensione all’Oriente, alla sua salita al potere, sicché si deve aspettare fino a Teodosio perché sia rinnovata la condanna del crimine di apostasia. Questo non perché ci fosse acquiescenza da parte delle autorità di fronte al fenomeno, ma perché le leggi contro la circoncisione apparivano sufficienti ad arginarlo, tanto più che il clima del tempo non doveva favorire il passaggio dal Cristianesimo trionfante al Giudaismo, attaccato ormai sia dalla Chiesa, sia dallo Stato.
La circoncisione era considerata dai Romani un segno tipico dell’Ebraismo, nonostante che agli antichi fosse ben noto che essa era praticata anche da altri popoli. Il Diritto romano non la proibiva, almeno sino al tempo di Adriano. Con Domiziano cominciò un movimento legislativo verso la penalizzazione della castrazione, che venne punita mediante la Lex Comelia de sicariis. Tale movimento continuò sotto Nerva e, nonostante che si possa discutere sulle ragioni del provvedimento – morali od economiche – non c’è motivo di negare che esso avesse anche uno sfondo umanistico. La circoncisione restava però lecita e la cosa avrebbe permesso anzi a taluni Cristiani di sottrarsi alle persecuzioni facendosi passare per Ebrei, in modo tale da poter godere dei privilegi ebraici, compresa l’esenzione del culto dell’imperatore. Il rescritto di Adriano contro la castrazione venne formulato in modo generale tanto da poter comprendere anche altre forme di mutilazione dei genitali e così venne interpretato almeno in Palestina, dove il divieto di circoncisione fu una delle cause della rivolta di Bar Kochbah (132-135). Le pene comminate erano gravissime: la morte, sia per l’adulto che si lasciasse circoncidere volontariamente, sia per il medico che praticava l’operazione; l’esilio e la confisca dei beni per chi, libero, facesse circoncidere una terza persona, fosse pure il proprio figlio. Antonino Pio
formulò un privilegio, in forza del quale era lecito ai soli Ebrei circoncidere ma unicamente i loro figli, ferma restando la proibizione a circoncidere i propri
schiavi (Dig. 48, 8. 11).
Sotto gli imperatori cristiani fu rinnovato agli Ebrei il divieto di circoncidere Cristiani sotto pena di proscrizione e morte. Nel caso di uno schiavo, cristiano o
pagano, che il padrone ebreo avesse circonciso, questi avrebbe ottenuto la libertà, secondo l’editto di Costantino del 335; un secondo editto stabilì invece che lo schiavo passasse al fisco e che il proprietario fosse punito con la morte. La data di questo secondo intervento è incerta; se, come si tende a ritenere oggi, questo editto è precedente a quello del 335, non si deve vedere nell’alleviamento della pena un desiderio di esercitare minore severità nei confronti degli Ebrei desiderosi di circoncidere i loro schiavi, ma semplicemente un espediente per facilitare la denuncia del fatto. È naturale che uno schiavo che poteva aspettarsi la libertà dalla denuncia dell’operazione subita, senza pregiudizio per la vita del padrone, era più disposto e aveva meno scrupoli a farlo di chi non si poteva aspettare altro che di passare all’assai più dura proprietà pubblica, causando per di più la morte del suo ex padrone.
Diverse norme speciali garantivano la protezione del culto ebraico in Roma antica. In primo luogo, gli Ebrei erano esenti dal partecipare al culto dell’imperatore, non formalmente, giacché dal punto di vista strettamente legale non esisteva nessuna esenzione di questo genere, ma di fatto, accontentandosi le autorità di una forma di omaggio indiretta, che si manifesta nelle iscrizioni in formule come «Deo aeterno pro salute Augusti»
che troviamo nella Sinagoga ad Ostia, e simili. Allo stesso modo gli Ebrei erano esenti dal dovere di festeggiare le festività pagane, salvo quelle in onore
dell’imperatore, ma erano naturalmente esenti dalle manifestazioni cultuali. Sotto gli imperatori cristiani iniziò una tendenza ad obbligare gli Ebrei a un determinato comportamento nei giorni festivi del calendario cristiano: l’editto di Teodosio del 425 interdiceva gli spettacoli a tutti, compresi espressamente gli Ebrei, la domenica e nelle feste di Natale, Epifania, Pasqua e Pentecoste. Questa tendenza incoraggia iniziative ecclesiastiche che talvolta assumono perfino valore di leggi, come l’imposizione agli Ebrei di prediche forzate nelle festività, il divieto di lavorare la domenica e di comparire tra i Cristiani nei giorni di Pasqua.
Un importante privilegio di cui godevano gli Ebrei sotto l’impero pagano era il diritto di assemblea a scopo di culto, compreso il diritto di riunirsi in banchetti
 rituali (agapi), in contrasto col divieto che colpiva altri assembramenti cultuali. Roma si impegnò anche a far rispettare tale privilegio nelle città greche e
ad esigere che gli Ebrei potessero avervi un loro luogo di riunione dove esercitare le proprie funzioni religiose. Qui essi avevano diritto di pregare a loro modo, in ebraico, ad alta voce, cantando e suonando lo shofar (corno di montone). Questo diritto rimase in vigore anche durante il periodo cristiano: nel VI secolo però venne limitato dalla norma che la preghiera non doveva essere udita in nessuna chiesa situata nelle vicinanze: nel qual caso la sinagoga stessa veniva trasformata in chiesa, mantenendo gli Ebrei il diritto di costruirne un’altra in luogo diverso e più isolato.
Nella sinagoga gli Ebrei avevano anche il diritto di raccogliere denaro, sia per gli usi comunitari sia per inviarlo in Palestina, al Santuario di Gerusalemme fino
al 70 e più tardi al Patriarca. Le somme raccolte suscitavano spesso la cupidigia delle autorità locali che talvolta cercavano di appropriarsene con la scusa di tasse municipali dovute dagli Ebrei o di divieti di esportazione di valuta. Cesare e Augusto emisero editti intesi ad impedire tale abuso. Col 70 il denaro della capitazione venne trasferito al fiscus iudaicus; ma probabilmente già nel secondo secolo venne riconosciuto al Patriarca il diritto di esigere una tassa da tutti gli Ebrei dell’impero, l’aurum coronarium, oltre a decime e tributi in primizie, riscossi specialmente in Palestina. Il Patriarca aveva il diritto di fissare il livello della tassa e il modo di esazione. Gli imperatori cristiani tentarono di interferire: nel 399 Onorio cercò di abolire l’aurum coronarium in Occidente, con la scusa che era un carico troppo pesante per gli Ebrei occidentali - in realtà per ragioni politiche e fiscali -, ma nel 404 la proibizione di raccogliere questo tributo fu abolita. Nel 429, decaduto il patriarcato, l’aurum coronarium venne trasferito alla cassa dell’imperatore e divenne una tassa speciale sugli Ebrei.

c) Organizzazione
Nell’impero romano pagano gli Ebrei godevano anche del diritto all’autonomia e alla auto-organizzazione, sia
a livello locale, sia a livello centralizzato. Gli Ebrei della diaspora riconoscevano il Tempio di Gerusalemme e nella gerarchia palestinese il naturale centro
dell’autorità nazionale, cui inviavano i tributi dovuti secondo la legge ebraica. Era quindi naturale che le autorità romane riconoscessero nel capo del Giudaismo palestinese – re e gran Sacerdote insieme nel periodo più antico dei rapporti reciproci – il leader di tutto il Giudaismo. Secondo Juster già i Maccabei avrebbero trattato con i Romani a beneficio e per conto della diaspora: il primo degli Asmonei a cui venne riconosciuto ufficialmente da Roma un ruolo di autorità relativamente agli ebrei di tutto l’impero fu Ircano II, e se anche  nulla prova che tale competenza sia stata riconosciuta ad Erode e ai suoi discendenti o ai gran sacerdoti nominati dalle autorità provinciali fino al 70, tuttavia un ruolo non ufficiale di rappresentante e difensore degli interessi giudaici deve essere stato indubbiamente mantenuto dai membri più influenti della casa reale idumea.
Dopo la distruzione del Tempio, i Romani, timorosi di una rinascita delle ambizioni indipendentistiche intorno alla figura di un capo nazionale, condussero una lotta spietata contro l’emergenza di una nuova leadership politica; d’altro canto prima tollerarono poi riconobbero come vantaggiosa ai propri scopi l’esistenza di una leadership spirituale, che operando per dare ai sopravvissuti alla catastrofe i mezzi per vivere il Giudaismo nella nuova situazione, favoriva lo stabilirsi di un modus vivendi pacifico con i dominatori. Molto poco sappiamo del periodo compreso tra le due rivolte, in cui fu attiva l’accademia dei Saggi a Yavne da cui nasceva un nuovo Sinedrio, con a capo un Nasi  a cui i Romani diedero più tardi il nome di Etnarca o più comunemente Patriarca.
Con la pacificazione operata da Antonino Pio dopo la rivolta e gli anni di susseguente persecuzione sotto Adriano, vediamo emergere sempre più chiaramente la figura del Patriarca. Questo personaggio, riconosciuto e ufficialmente nominato dall’imperatore,deteneva a vita la carica, ereditaria della casa di Hillel, era responsabile verso le autorità del buon comportamento degli Ebrei di Palestina e rappresentava la nazione giudaica nei suoi rapporti esterni sia in Palestina, sia nella diaspora. In questioni interne il Patriarca esercitava il triplice potere, amministrativo – tramite i funzionari che nominava -, legislativo – come presidente del Sinedrio – e gudiziario. Nonostante che in diversi campi gli Ebrei non avessero più giurisdizione indipendente, di fatto il tribunale del Patriarca e quelli da lui nominati giudicavano le cause degli Ebrei in Palestina e nella diaspora. Il Patriarca nominava ufficiali comunitari a livello locale e provinciale, ed emissari che tenevano i contatti con la sua corte e tutta la diaspora, raccoglievano le tasse imposte dal Patriarca ed esercitavano una
supervisione sui capi delle sinagoghe col diritto di deporli e nominarne altri e trasmettevano le proclamazioni annuali delle date delle feste. Nel III secolo il
Patriarca godeva di uno status simile a quello di un monarca compreso il potere di amministrare la pena di morte ed altri attributi regali.
Gli imperatori cristiani per un certo periodo non portarono mutamento in questa situazione, di cui riconoscevano l’antichità, anzi confermarono i privilegi del
Patriarca, la sua suprema autorità sui funzionari e sui giudici; lo difesero contro ogni attacco e gli attribuirono perfino la prefettura del pretorio onoraria. Ma negli ultimi anni del IV e all’inizio del V secolo l’autorità regale del Patriarca venne intaccata in vari modi […] Nel 415 il Patriarca è accusato di violazione delle recenti leggi antigiudaiche relative al proselitismo, alla costruzione di sinagoghe e al possesso di schiavi cristiani ed ammonito a non fungere da giudice in controversie tra Ebrei e Cristiani – accuse queste ultime che non vanno riferite alle sue attività personali ma a quelle del pubblico di cui era responsabile e dei tribunali rabbinici che da lui dipendevano. Questo editto degrada anche il Patriarca dalla prefettura del pretorio onoraria. Poco tempo dopo, venuto a morte Gamaliele VI senza discendenti diretti (429), l’imperatore ne approfittò per lasciar estinguere il patriarcato…


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