APPROFONDIMENTI CULTURALI - XXXIV  - Dal Notiziario semestrale n.3 - Ottobre 2004 - ANNO XVIII, N. 3

DELL’AMORE DI DIO

 (S. Francesco di Sales, Il Teotimo o Trattato dell’Amore di Dio, trad. di E. Ceria, SEI, Torino 1966, Libro IX Amore di sommissione, capp. IX-XII, pp. 232-251. Quello che in questi capi il Santo scrive sull’indifferenza, è detto dal Brémond – Histoire littéraire du sentiment réligieux en France, t. II, p. 89 – «un capolavoro o meglio il capolavoro della letteratura spirituale».)

Francesco di Sales (Threns, Savoia 1567 - Lione 1622) fondò nel 1610, con Giovanna Francesca di Chantal, l’Ordine della Visitazione di Nostra Signora che concepì come una società senza voti e senza clausura. Su invito della Chantal scrisse questo trattato sull’amore di Dio, edito nel 1616. Per quanto meno noto della precedente Introduzione alla vita devota o Filotea, il Teotimo rappresenta uno dei vertici della spiritualità della Controriforma. Lo spirito con cui scrisse questa sua opera è ben espresso da queste sue parole scritte a Giovanna Francesca: «Benché tutto freddo gelato, bisogna che io scriva del santo amore. Considerate questo giorno come il primo in cui comincio a impegnarvi ogni minuto che potrò strappare alla ressa degli altri miei doveri e non cessate d’invocare per me l’amore del divino Amante».
Canonizzato nel 1665, fu proclamato Dottore della Chiesa nel 1877 e patrono dei giornalisti cattolici nel 1923.

 
CAPO IX. Purità dell’indifferenza nelle azioni del santo amore.

Uno dei più valenti musici del mondo, che sonava a perfezione il liuto, diventò in breve così gravemente sordo, che l’orecchio non gli serviva più per niente; continuò tuttavia a cantare e a maneggiare con meravigliosa delicatezza il suo strumento, per la grande abitudine da lui acquistata né toltagli dalla sordità. Ma non potendo provare alcun piacere nel canto e nel suono, perché, privo dell’udito, non ne sentiva la dolcezza e la bellezza, cantava e sonava unicamente per contentare un principe, di cui era nato suddito e a cui aveva sommo desiderio di piacere, essendogli obbligatissimo per essergli stato allevato in casa fin dalla giovinezza; perciò aveva un piacere indicibile di piacergli, e quando il principe gli dava segno di gradirne il canto, era fuori di sé dalla contentezza. Ma a volte succedeva che il principe, per mettere alla prova l’amore del suo amabile musico, gli ordinasse di cantare, e poi subito, lasciandolo solo nella stanza, se n’andasse a caccia; pure il desiderio, che il cantore aveva di uniformarsi ai desideri del suo signore, faceva sì che continuasse il canto con tutta l’attenzione come se il principe fosse presente, sebbene in verità a cantare egli non avesse alcun gusto: poiché non provava né il piacere della melodia di cui lo privava la sordità, né quello di piacere al principe, che era lontano, né godeva la dolcezza delle belle arie da lui eseguite: Pronto è il mio cuore, o Dio, pronto è il mio cuore; voglio cantare e inneggiare: destati, o mio canto, destati, o arpa e cetra: voglio sorgere con l’aurora (Sal 57,8-9).
I
l cuore umano è certamente il vero cantore del cantico dell’amor santo, ed è esso stesso arpa e salterio. Ora questo cantore ascolta d’ordinario se medesimo, e prende gran diletto in udire le melodie del suo cantico: in altri termini, il nostro cuore, amando Dio, gusta le delizie di questo amore, e prova una soddisfazione ineffabile nell’amare un oggetto sì amabile. Bada, di grazia, o Teotimo, a quello che voglio dire: i giovani usignoletti si provano da principio a cantare per imitare i grandi; poi, maestrevolmente addestrati, cantano per il piacere che hanno del loro gorgheggio e si appassionano tanto, come si disse altrove (Lib. V, c.8, dove viene citato in proposito Plinio, Nat. hist., X, 29), a tal diletto, che per il soverchio cantare si schianta loro l’ugola e muoiono. Similmente i nostri cuori, nel principio della loro divozione amano Dio per unirsi a lui, per piacergli e per imitarlo nell’aver egli amato eternamente noi; ma a poco a poco addestrati ed esercitati nel santo amore, scambiano insensibilmente le parti, e invece di amar Dio per piacere a Dio, cominciano ad amare per il piacere che provano negli esercizi del santo amore, e mentre prima erano innamorati di Dio, s’innamorano dell’amore che portano a Dio: sono affezionati ai loro affetti e non si compiacciono più in Dio, ma nel piacere che attingono dall’amore di lui, godendo di questo amore come di cosa loro, esistente nel loro spirito e da esso emanante; poiché, sebbene questo santo amore si chiami amor di Dio, essendo Dio l’amato con esso, non lascia però di essere nostro, essendo noi gli amanti che con quello amiamo. Ed ecco il punto dello scambio: invece di amare questo santo amore perché tende a Dio che è l’amato, lo amiamo in quanto proviene da noi che siamo gli amanti. Ora chi non vede che, così facendo, non più Dio si cerca, ma a noi si ritorna, amandosi l’amore invece dell’amato? Amandosi, dico, questo amore non per il compiacimento e il contento di Dio, ma per il compiacimento e  il contento che ne caviamo noi? Il cantore dunque, che da principio cantava a Dio e per Iddio, canta ora più a sé e per sé che per Iddio, e se gusta di cantare, non è più tanto per contentare l’orecchio del suo Dio quanto per contentare il proprio; ed essendo il cantico dell’amor divino il più bello di tutti, lo ama più d’ogni altro non per la bellezza divina che in quello si loda, ma perché l’aria del canto è più che mai piacevole e deliziosa.
 

CAPO X. Modo di conoscere il capovolgimento nel santo amore.

 È facile conoscerlo, o Teotimo; poiché, se il mistico usignolo canta per contentare Dio, canterà il cantico che saprà essere più gradito alla divina Provvidenza; ma se canta per il piacere da esso gustato nella melodia del proprio canto, non canterà il cantico più gradito alla Bontà celeste, ma quello che va più a genio a lui e dal quale pensa di trarre maggior piacere. Di due cantici, veramente divini entrambi, può darsi che uno si canti perché è divino e l’altro perché è piacevole. Così Rachele e Lia sono egualmente spose di Giacobbe: ma l’una è amata da lui solamente quale sposa, e l’altra come più bella. Il cantico è divino, ma il motivo che ce lo fa cantare, è il diletto spirituale che vogliamo trarne. Non vedi, si dirà a quel Vescovo, che Dio vuole che tu canti il cantico pastorale della sua dilezione in mezzo al tuo gregge, il quale egli in virtù del suo santo amore ti comanda tre volte di pascere, come lo comandò al grande san Pietro (Gv 21,15-17), il primo dei Pastori?  Che mi risponderai? Che a Roma, che a Parigi vi sono più delizie spirituali e che vi si può con maggior dolcezza praticare il santo amore? Oh Dio! Non per piacere a voi costui vuole cantare, ma per il piacere che prova nel canto; non voi cerca nell’amore, ma il contento procuratogli dalla pratica del santo amore. I religiosi vorrebbero cantare il cantico dei pastori, e i coniugati quello dei religiosi, per potere, dicono, amare e servire meglio Dio. Eh, v’ingannate, miei cari amici! Non dite che è per amare e servire meglio Dio: no, no di certo! È per servire meglio la vostra propria soddisfazione, amata più della  soddisfazione di Dio. La volontà di Dio è nella malattia quanto e quasi sempre meglio che nella sanità. Se dunque si ama di preferenza la sanità, non si dica che è per servire meglio Dio; poiché chi non vede che si cerca la sanità nella volontà di Dio e non la volontà di Dio nella sanità? È difficile, non lo nego, rimirare a lungo e con piacere la bellezza di uno specchio, senza rimirarvi sé, anzi senza provar piacere a rimirarvisi; ma vi è differenza fra il piacere provato nel guardare uno specchio perché bello, e il gusto di guardare uno specchio perché ci si vede se stesso.
È indubbiamente difficile amare Dio senza amare insieme il piacere che si prova nel suo amore; pur tuttavia corre gran differenza fra il contento che si ha nell’amar Dio perché è bello, e quel che si ha nell’amarlo perché il suo amor ci diletta. Chi, pregando Dio, avverte di pregare, non è interamente attento a pregare; poiché distoglie l’attenzione da Dio, che egli prega, per pensare alla preghiera con cui lo prega. La cura stessa che abbiamo di non avere distrazioni, ci serve spesso di assai gran distrazione; nelle azioni spirituali è soprattutto commendabile la semplicità. Vuoi mirare Dio? Miralo pure e stacci attento; perché se pieghi gli occhi, rivolgendoli sopra di te, per vedere come ti contieni nel mirarlo, più non miri lui, ma il tu contegno, ma te stesso. Chi è in fervorosa orazione, non sa se sia in orazione o no, perché non pensa all’orazione che sta facendo, ma pensa a Dio, al quale la fa. Chi è nell’ardore dell’amor sacro, non volge il cuore sopra se stesso per rimirare quello che fa, ma lo tiene fermo e occupato in Dio, al quale applica il suo amore. Il cantore celeste si compiace tanto di piacere al suo Dio, che nella melodia della propria voce prova piacere solamente perché questa piace al suo Dio.
Perché credi tu, o Teotimo, che Amnone, figlio di Davide, amasse così appassionatamente Tamar da sentirsi perfino morir d’amore? (2 Sam 13). Pensi che amasse proprio lei? Puoi vedere senz’altro che no; infatti, appena saziato il suo esecrabile desiderio, la spinse crudelmente fuori e la rigettò con ignominia. Se avesse tanto amato Tamar, non avrebbe fatto così, perché Tamar era sempre Tamar; ma perché non Tamar egli amava, ma il brutto piacere in essa agognato, appena avuto quello che cercava, fellonescamente la schernì e la trattò in modo brutale: era in Tamar il suo piacere, ma non il suo amore, che era nel piacere e non in Tamar; perciò, sparito il piacere, egli avrebbe volentieri fatto sparire Tamar. Vedrai uno, o Teotimo, pregar Dio apparentemente con gran divozione, mostrando vivo fervore negli esercizi dell’amor celeste; ma  aspetta un poco e vedrai se ama veramente Dio. Purtroppo al primo cessare della dolce soddisfazione gustata nel suo amore e al sopravvenire delle aridità, abbandonerà tutto e pregherà solo così alla sfuggita. Se davvero avesse amato Dio, perché avrebbe cessato di amarlo, essendo Dio sempre Dio? Dunque la consolazione di Dio egli amava, e non il Dio della consolazione (2 Cor 1,3).
A tante persone purtroppo piace l’amor divino solo quando sia confezionato con lo zucchero di qualche soavità sensibile, e farebbero volentieri come i bambini, i quali, dandosi loro miele sopra un boccone di pane, leccano e succhiano il miele e poi gettano via il pane. Se la soavità fosse separabile dall’amore, lascerebbero l’amore e sorbirebbero la soavità; quindi, poiché seguono l’amore per la soavità, quando non vi trovano questa, dell’amore non fanno conto. Tali persone però sono esposte a molti pericoli, o di tornare indietro, quando manchino loro i gusti e le consolazioni, o di perdersi dietro a dolcezze vane e lontanissime dal vero amore, prendendo il miele di Eraclea per quello di Narbona.

CAPO XI. Perplessità del cuore che ama senza sapere se piaccia al Diletto.

Il musico, di cui ho parlato, divenuto sordo, non aveva più altra soddisfazione a cantare che quella di vedere talvolta il suo principe attento ad ascoltare e a compiacervisi. Beato il cuore che ama Dio senz’altro piacere che quello di piacere a Dio! Qual piacere infatti può mai aversi più puro e più perfetto di quello che si piglia nel piacere della divinità? Tuttavia questo piacere di piacer a Dio non è, a parlare propriamente, l’amor divino, ma solo un suo frutto, che può esserne staccato come un cedro dalla sua pianta. Poiché, come ho detto, il nostro musico cantava sempre senza ricevere alcun piacere dal proprio canto, impedendoglielo la sordità, e spesse volte cantava anche senz’aver il piacere di piacer al principe, giacché il principe, ordinatogli di cantare, se n’andava a caccia, senza pigliarsi né il tempo né il piacere di udirlo. Finché, o mio Dio, vedo la vostra faccia benigna che mostra di gradire il canto del mio amore, oh che consolazione sento! Vi può essere infatti piacere che eguagli il piacere di far piacere al proprio Dio? Ma quando ritraete gli occhi da me, e io non iscorgo più il benigno favore con cui vi compiacete di ascoltare il mio canto, oh gran Dio, qual pena per l’anima mia! Ella tuttavia non cessa di fedelmente amarvi e di cantare del continuo l’inno della sua dilezione, non per piacere che vi trovi, non trovandovene   alcuno, ma canta per puro amore della vostra volontà.
Si vide un fanciullo ammalato mangiare coraggiosamente, sebbene con incredibile disgusto, quanto la madre gli dava, per il solo desiderio che aveva di contentarla; e così mangiava senza provare nessun piacere nel cibo, ma non senza un altro piacere migliore e più vivo, quello di piacere alla madre e di vederla contenta. Ma senza piacere di sorta mangiava quell’altro che, non vedendo la madre, mangiava solo perché conosceva la sua volontà, e quindi prendeva tutto quello che da parte di lei gli veniva portato; sicché non aveva né il piacere del mangiare, né la soddisfazione di veder il piacere della madre, mangiando per il puro e semplice desiderio di fare la di lei volontà. La sola soddisfazione di un principe che sia presente, o di qualche persona vivamente amata, basta a rendere deliziose le veglie, le fatiche, i sudori e desiderabili anche i pericoli; ma non c’è cosa più triste del servire un padrone che non ne sa nulla, o che, sapendolo, non fa sembiante di saperne grado; in tal caso, bisogna proprio che l’amore sia ben forte, a sostenersi così da solo, senz’appoggio di alcun piacere né  attuale né aspettato.
Talvolta dunque accade che non abbiamo nessuna consolazione negli esercizi dell’amor sacro; poiché, come musici sordi, non udendo la nostra voce, non possiamo gustare la soavità del nostro canto: oltre a questo ci assediano invece molti timori e ci turbano molti strepiti sollevatici dal nemico intorno al cuore, con l’insinuarci che forse non siamo graditi al nostro Padrone e che l’amor nostro è inutile, anzi falso e vano, giacché non produce consolazioni. Allora pertanto, o Teotimo, fatichiamo non solo senza piacere, ma con sommo tedio, non vedendo né il frutto della nostra fatica né la soddisfazione di Colui, per il quale fatichiamo.
Ma quello che in tale congiuntura accresce il male, si è che nello spirito la suprema punta della ragione non può recarci nessun conforto; poiché questa povera parte della ragione, circondata dalle suggestioni del nemico, è tutta allarmata anch’essa, ed ha il suo da fare per guardarsi dalla sorpresa di qualche consenso al male, sicché non può fare alcuna sortita per trarre d’impaccio la parte inferiore dello spirito. E benché non abbia perduto il coraggio, pure è così tremendamente assalita, che, pur essendo senza colpa, non è senza pena; tanto più che, per colmo di afflizione, è priva della consolazione generale solita ad aversi quasi sempre in tutti gli altri mali di questo mondo, consistente nella speranza che non dureranno sempre e che se ne dovrà vedere la fine; poiché durante questi tedi spirituali, il cuore cade in una specie d’impotenza a pensarne la fine e quindi a ricevere conforto dalla speranza. Certo la fede, che risiede nella cima dello spirito, ci assicura che il trambusto finirà e che un giorno godremo riposo; ma il grande strepito e schiamazzo fatto dal nemico nel resto dell’anima, ossia nella parte inferiore, impedisce quasi affatto di percepire i suggerimenti e i richiami della fede, né altro ci rimane nell’immaginazione fuorché questo triste presagio: purtroppo io non sarò mai più lieto!
Oh Dio! Ma proprio allora, mio caro Teotimo, bisogna mostrare una fedeltà invitta verso il Salvatore, servendolo per puro amore della sua volontà, non solo senza ìl piacere, ma in mezzo a quel diluvio di tristezze, di orrori, di spaventi e di assalti, come fecero nel giorno della Passione la sua gloriosa Madre e San Giovanni, che fra tante bestemmie, dolori e angosce mortali stettero fermi nell’amore, anche quando il Salvatore, ritirata tutta la sua santa gioia nella sommità dello spirito, non effondeva più né allegrezza né consolazione sulla sua faccia divina, e i suoi occhi, languidi e velati dalle tenebre della morte, davano soltanto sguardi di dolore, come solamente raggi d’orrore e di spaventose tenebre mandava il sole.

CAPO XII. L’anima fra gl’interni travagli non conosce l’amore che porta al suo Dio. Morte amabilissima della volontà.

Essendo il grande san Pietro (At 12,6-11) vicino a essere martirizzato, gli entrò l’Angelo nella prigione e, riempiendola di splendore, lo svegliò, lo fece alzare, gli ordinò di cingersi, calzarsi e vestirsi; gli levò i ceppi e le manette, lo cavò fuori della prigione e lo menò attraverso alla prima e alla seconda scolta fino alla porta di ferro che metteva nella città, e quella da sé si dischiuse loro, e percorsa una contrada, l’Angelo lasciò ivi il glorioso Apostolo in piena libertà. Ecco una gran varietà di azioni molto sensibili; eppure san Pietro, che prima d’ogni altra cosa era stato svegliato, non credeva che fosse vero quello che dall’Angelo si faceva, ma si pensava di sognare. Era sveglio, ma non credeva di esserlo; si era calzato e vestito, e non sapeva d’averlo fatto; camminava, e non stimava di camminare; era libero, e non ci credeva. E ciò perché la stragrande meraviglia della sua liberazione gli occupava talmente lo spirito, che, sebbene avesse bastante sentimento e conoscenza per fare quanto faceva, pure non ne aveva a sufficienza per conoscere che lo faceva realmente e davvero: vedeva l’Angelo, ma non percepiva che quella fosse vera e naturale visione; perciò non provava consolazione alcuna della sua liberazione, finché, tornato in sé: Ora, disse, mi accorgo davvero, che Dio ha mandato il suo Angelo, e mi liberò di mano a Erode, e di tutto  quello che il popolo giudeo si aspettava.
Lo stesso è, o Teotimo, di un’anima, che sia grandemente oppressa da pene interne. Sebbene abbia la possibilità di credere, di sperare e di amare Dio, e in realtà lo faccia, non ha però la forza di ben discernere se creda, se speri e se ami il suo Dio; poiché l’angoscia lo occupa e la opprime sì fortemente, che non può fare alcuna riflessione sopra di sé per vedere quello che fa, e quindi le pare di non avere né fede né speranza né carità, ma soltanto fantasime e vane impressioni di tali virtù, sentendole quasi senza sentirle e sentendole come estranee, non come familiari. Infatti, se osserverai bene, troverai che i nostri spiriti sono sempre in simile stato, quando gagliardamente li occupa qualche passione violenta; ché allora fanno molte azioni come in sogno, avendone sì poca sensazione da non parer quasi loro che le cose siano veramente quali sono. Onde il sacro Salmista esprime la grandezza della consolazione provata dagli Israeliti al loro ritorno dalla cattività di Babilonia, così cantando: Quando il Signore ricondusse i reduci a Sionne, noi eravamo come trasognati (Sal 126,1. La Volgata ha sicut consolati. Trad. del P.Vaccari). E come dopo i Settanta ha la santa versione latina: Noi fummo come uomini ricolmi di consolazione. Ossia: lo stupore che ci colse del gran bene fattoci da Dio era così smisurato da non lasciarci sentire la consolazione ricevuta; e ci sembrava di non essere veramente consolati, e che la nostra fosse una consolazione non reale, ma solo apparente e sognata.
Tali sono i sentimenti dell’anima, che versa in spirituali angustie. Queste rendono puro e netto al sommo l’amore, il quale, spoglio d’ogni piacere che possa servire di mezzo per attaccarlo al suo Dio, a Dio ci congiunge e ci unisce immediatamente, volontà a volontà, cuore a cuore, senza che s’interponga soddisfazione o pretensione di sorta. Oh quale afflizione, o  Teotimo, per il povero cuore, quando, stimandosi abbandonato dall’amore guarda per tutto e gli pare di non trovarlo! Non lo trova nei sentimenti esterni, che non ne sono capaci; non nell’immaginazione, che è crudelmente tormentata da varie impressioni; non nella ragione turbata da molte oscurità di discorsi e di apprensioni strane; e benché finalmente lo trovi nella cima più alta dello spirito, dove la divina dilezione risiede, tuttavia non lo riconosce e non gli sembra desso, perché la grandezza delle pene e delle tenebre gl’impedisce di sentirne la dolcezza; lo vede senza vederlo, lo incontra senza conoscerlo, come se fosse in sogno e in immagine. Così la Maddalena, incontrato il caro Maestro, non ne ricevette conforto, perché non si pensava che fosse lui, ma soltanto il giardiniere (Gv 20,15).

Che cosa può fare dunque l’anima, che sia in tale stato? O Teotimo, essa non sa più come reggere a tante pene, e non ha più forza se non per lasciar morire la sua volontà fra le mani della volontà di Dio, imitando il dolce Gesù, che sulla croce, arrivato al colmo delle pene prefissogli dal divin Padre, né potendo più resistere a’ suoi estremi dolori, fece come il cervo che, senza fiato e sopraffatto dai cani, si arrende all’uomo e con l’occhio lagrimante manda gli ultimi bramiti. Così il divin Salvatore, già prossimo alla morte, mandando gli ultimi sospiri, con un alto grido e con molte lagrime: Oh Padre, disse, nelle tue mani rimetto il mio spirito (Lc 23,46): parola, o Teotimo, che fu l’ultima di tutte e con cui il diletto Figlio diede la suprema testimonianza del suo amore verso il Padre. Quando dunque tutto ci vien meno, quando le nostre pene sono all’estremo, questa parola, questo sentimento, questo rimettere l’anima nelle mani del Salvatore non ci può mancare. Il Figlio, in quell’ultima e incomparabile angoscia, rimise il suo spirito al Padre; anche noi, allorquando gli spasimi delle pene spirituali ci tolgono ogni altro conforto e ogni altro mezzo di resistenza, rimettiamo il nostro spirito nelle mani di quell’eterno Figlio, che è nostro vero Padre e, inchinando il capo (Gv 19,30) della nostra conformità al suo beneplacito, consegniamogli tutta la volontà nostra.


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