Il
libro dei Proverbi, che nella Bibbia ebraica fa parte della terza sezione, i Ketuvim, è
tradizionalmente attribuito a Salomone, del quale
è detto che pronunciò 3.000 sentenze (1
Re 5,12). In realtà questo libro (che in ebraico si
intitola Mishlè, "proverbi di") è la sedimentazione
di una produzione sapienziale che si forma prima dell’esilio
(capp. 10-29) e giunge al post-esilio con i capp. 1-9. Mentre
nella parte più antica sono menzionati alcuni autori –
naturalmente leggendari – i capp. 1-9 si presentano, sin dal primo
versetto, come «proverbi di Salomone, figlio di David, re
di Israele». Naturalmente la critica ha ridimensionato o
annullato quasi tutte le attribuzioni che compaiono nella Bibbia
ebraica (come anche nel Nuovo Testamento). Ma è significativo
che il mondo della sapienza sia stato da sempre attribuito a quel
re che – lo diciamo con un sorriso – era ricco di tutto: cavalli,
donne, palazzi, tesori, conoscenze scientifiche. E anche di sapienza.
Ma che cos’è, nel linguaggio biblico, la sapienza? Chi è il sapiente? Un’analisi lessicale, che faremo a Venezia, ci aiuterà a distinguere fra i vari vocaboli usati, non traducibili in modo esauriente in italiano. Infatti il verbo italiano «sapere» copre sia gli aspetti culturali, sia quelli sapienziali, sia quelli puramente informativi, mentre già dai primi versetti del primo capitolo incontriamo una pluralità di vocaboli (che qui diamo nella loro approssimativa traduzione italiana): consiglio, proverbi, scienza, sapienza, istruzione, che in ebraico hanno sfumature e ambiti difficili da conservare in italiano. Così come la fonte del sapere, che noi oggi individueremmo nella cultura, è invece attribuita, dal versetto 7, al «timore del Signore» (anche questa espressione richiederà un’attenta analisi). L’attribuzione della sapienza a Salomone risponde anche a una concezione ideale della monarchia: tuttavia proprio il fatto che in Israele il re non fosse divino,ci insegna che al di sopra del re e della sua sapienza c’è un’altra Sapienza (con la maiuscola) che nel cap. 8 «aiuta» Dio a creare il mondo e «gioca» davanti a Lui come la sua creatura prediletta e primogenita. Concezione che nell’ebraismo avrà uno sviluppo midrashico (Bereshit Rabbà), fino a ispirare la teologia della Shekhinà, e nel cristianesimo porterà a identificare la Sapienza stessa con il Verbo. Senza affrontare tale tema, dobbiamo però osservare che questo flusso sapienziale che da Dio scende sulla terra, ispira i re e i sapienti e diviene patrimonio di tutto Israele, getta luce in qualche modo sulla «vita interiore» di Dio: anche attraverso questo libro si manifesta la Sua immagine e somiglianza nell’uomo. Chi è dunque il sapiente? Non colui che sa tutto, ma colui che sa bene, anzi colui che sa il bene. Forse il lettore troverà che molti proverbi, specialmente della seconda parte del libro, suonano a noi un po’ scontati (come quelli che si trovano nei cioccolatini): a questo lettore consigliamo di condire il libro dei Proverbi con un altro libro attribuito a Salomone, il Qohelet. Questo «condimento» darà molto più sapore alla nostra lettura. Ma il principio della sapienza non è solo il timore del Signore: è anche lo studio dell’ebraico che faremo a Venezia, e che forse ci permetterà di comunicare più direttamente con Lui. Perché, come tutti ormai sanno, in paradiso si parla l’ebraico. Paolo De Benedetti
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Per la gioia degli affezionati irriducibili
al sottile fascino di una Venezia che si nasconde, ma non troppo, fra
le nebbie invernali, ecco una grande notizia: il corso residenziale
di ebraico biblico, dopo un’assenza di quattro anni, ritorna nella
città dei Dogi, e questa volta addirittura nel cuore del bacino
di S. Marco: l’isola di San Servolo. |
All'indomani dei fatti dolorosi del
Sud-est asiatico, in cui abbiamo visto acque travolgere vite popoli
paesaggi memorie, è stato strano trovarsi, sull'isola di San
Servolo, circondati d'acqua... una acqua però quieta e ospitale,
lagunare, una sorta di remedium omeopatico. Più strano
ancora avere per le mani i fogli dei Proverbi, quando letture
vibranti di Profeti e visioni, o letture per antifrasi, in
senso escatologico, per esempio del Bereshit (la separazione
delle acque dalla terraferma di Gen. 1,9, che alla fine viene
meno) avrebbero commosso alla tentazione della lettura figurale del
testo biblico. Così, l'esordio per sottrazione di Paolo
De Benedetti è stato un contrafforte a possibili marosi
di retorica e apocalittica: «Il libro dei Proverbi ha
delle assenze. Non è una storia della salvezza, non è
una storia del popolo, non è una visione
Alcuni dicono
perché ha un carattere internazionale. Soggin pensa che il
disinteresse 'storico' del saggio sia intenzionale, perché
il saggio si occupa dell'ordine cosmico, non della prassi
Un'altra
ipotesi è che i Proverbi fossero un training
pratico per gli alti funzionari". Mi piace registrare in una sorta di
presa diretta il nostro relatore (anche se preferirei chiamarlo 'Morenu',
nostro maestro, se solo non temessi la sua ritrosìa), perché,
mentre tiene il discorso principale ben dritto sulla scena, poi apre
su degli aside, degli a parte, che contrappuntano con
ironia, garbo, mettono più sale, fanno il discorso mosso. Primo
aside debenedettiano sulla Sapienza (o le sapienze): "Altro
è la sapienza trattatistica, che svolge un discorso: Giobbe,
Qohelet, altro è la sapienza dei Proverbi, aforistica, io la
chiamo 'dei cioccolatini'... in forma non moralistica, bensì
critica, il mashal [il proverbio] potrebbe corrispondere all'odierno
witz». Questo stesso è un witz e, messa
così, fa intuire che il grammatico lascerà spesso spazio
all'ermeneuta (anche ironista). Nel mettere in dubbio la falsa attribuzione
a re Salomone dei Proverbi sapienziali, De Benedetti scocca il secondo
aside: «Spesso la pseudoepigrafia è un errore
storico che lo Spirito santo ha usato per inserire testi come ha voluto
Lui... Anzi Lei, perché nelle lingue semitiche ruach Elohim
è femminile; aleggia come una colomba ('dove-like brooding
on the vast Abyss' traduce John Milton nel suo Paradise lost
e 'covante sopra il vasto abisso' rende nel suo commento Rashì,
che glossa con il bellissimo verbo medievale acoveter)".
Così 'riabilitato', se pure
a mo' di witz, il copyright salomonico di questi detti
sapienziali («Mishle Shlomo ben David melekh Israel»:
proverbi di Salomone figlio di David, re d'Israele), già al
secondo verso è fatto (quasi) tutto il digesto delle parole
chiave della sapienza: da'at, chokhmà, musar, binà:
conoscenza, saggezza, disciplina (istruzione), intelligenza; poi vengono:
rettitudine giustizia equità: anche solo spigolare tra le fitte
concordanze lessicali di questi termini nella tradizione scritta e
orale dà una messe di spiegazioni, precisazioni, approfondimenti
per cui, di certo, non è spazio qui: basti solo che la chokhmà
è una delle prime tre Sefirot e che il Saggio, ha-chakham,
si declina in una varietà incredibile di situazioni, intra
ed extratestuali: è l'uomo forte dei Proverbi 24,5, ma anche
- qui un altro aside di De Benedetti - «in giudeo-romanesco
"er cacamme"»(ed il Belli infatti, nei suoi Sonetti,
scrive di Pio VIII: «Che ffior de Papa creeno! Accidenti!
/ Co rrispetto de lui pare er Cacamme»: segno che espressioni
del ghetto romano erano entrate nel patrimonio comune dialettale).
Insomma, a seconda del contesto, la paremiologia debenedettiana scarta
il binario principale, dritto e serio della lettera, lasciando il
posto a incisi, che sembrano casuali e invece tessono un altro possibile
midrash - per noi, qui, oggi: e questa è la levitas
di un maestro che si fa da parte - 'l'amico dello sposo' che deve
diminuire affinché l'Altro cresca, Gv. 3, 29-30 - e torna scolaro.
D'altra parte, il talmid chakham è il discepolo di un
saggio ma anche, nella tradizione rabbinica, il saggio stesso. Più seriamente, nel libro dei
Proverbi si parla più volte della donna, di 'tipi' di
donna: isha zarà, che ricorre più volte, come
contrapposta alla personificazione della Saggezza, è la 'donna
straniera' (avodà zarà è il culto straniero,
l'idolatria); isha nochrià è anch'essa la donna
forestiera; in Prov 7,10 è la donna 'zonà' (che,
mentre traduciamo 'prostituta' - e Donna Sapienza chiede di rifuggirla
- ha pur sempre versi molto belli, e alcune spezie - mirra, aloè
e cinnamomo - non che quei dodim - Lekhà nirveh dodim 'ad
ha-boker, Vieni, inebriamoci d'amore fino al mattino) che ricordano
il Cantico dei cantici). Ma questa straniera, forestiera dei
Proverbi è invece 'donna follia' di 9,13-18, 'moglie litigiosa'
di 21,9 e di 27,15 (dove c'è anche il paragone con il gocciolare
continuo in un giorno di pioggia): insomma, non possiede alcuna delle
virtutes mulierum, quali enumera (alla lettera) il capitolo
31, l'apoteosi della eshet chail, donna saggia, virtuosa (che
non è solo una brava massaia, ma gestisce anche le compravendite
e incrementa il bilancio di casa); tanto perfetta da finire nella
liturgia familiare quale canto di ringraziamento alla moglie ideale
da parte del marito ebreo. Ma attenzione: «Per uno sbaglio -
precisa De Benedetti - Quest'uso venne introdotto dai cabbalisti di
Safed, nel sec. XVI, in lode della Shekhinà, cioè
della presenza divina, che essendo un principio femminile può
essere illustrato dalla donna dei Proverbi. I non cabbalisti,
fraintendendo questo uso sabbatico, lo trasferirono a lode della propria
moglie». Insomma, i livelli di lettura aprono
veramente su diversi mondi possibili, così che, alla fine,
mi piace ricordare il mashal di Paolo De Benedetti che a me
appare il più prezioso, per non cadere nei fondamentalismi
smarrendo la 'retta via': «I sensi della scrittura sono settanta.
E io dico settantuno». Cioè: ogni passo biblico ha almeno
settanta sensi, più quello (il settantunesimo)
che ciascuno di noi è chiamato a trovare nella sua lettura
della Scrittura. Ci sono quattro livelli di interpretazione della
Torà: peshat o senso immediato, remez o senso
allegorico, derash o senso omiletico, sod o senso mistico;
PaRDeS è l'acrostico e pardes è il giardino
(pardes rimmonim, nel Cantico dei Cantici); c'è un episodio
citato anche da G. Scholem: «Quattro entrarono nel pardes:
Ben Azzaj, Ben Zomà, Elisha ben Avujà e rabbì
Aqivà Il primo morì. Il secondo impazzì. Il terzo
tagliò le piante [apostatò]. Solo rabbì Aqivà
si ritirò in pace». Ecco, a Venezia, ci siamo addentrati un po' in questo giardino, con una guida però, un maestro (come Dante col duca suo Virgilio), per non morire, impazzire, apostatare, ma tornare dalla Scrittura con un pochino più di pace (e rispondere con più di saldezza a quelli che parlano a vanvera di Dio e leviatani e tsunami, e intanto usano il Libro per chiedere il voto). Che poi il paradiso, a volere ben guardare, è questo: «Un pagano disse a un rabbino: 'Io mi faccio ebreo se tu mi mostri, almeno in sogno, il paradiso di Israele, per vedere se mi va bene'. Il rabbino accetta, e, in sogno, lo accompagna, attraverso sentieri aspri e fangosi, fino a una capannuccia dove c'è un vecchio emaciato che, al chiarore di una lucernetta, legge un immenso libro. Il rabbino dice al pagano: 'È rabbi Aqivà, ed è in paradiso'. 'Ma come replica il pagano - anche in paradiso deve studiare, e per di più in queste condizioni?'. La guida replica: 'Sì, ma vedi, questo è il suo premio: adesso capisce quello che legge'». Nicoletta Leone |