CORSO DI EBRAICO BIBLICO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La storia di un ragazzo modello: Giuseppe (Genesi 37-50)

 

Villa I Cancelli, Firenze,

30 dicembre 2007 – 5 gennaio 2008

 

 

 

Giuseppe, Biblical Stories in Jerusalem 1992, p. 53.

 Islamic Paintings, Israel Museum.  (Nel Corano la

 storia di Giuseppe è raccontata nella sura 12).

 

Anche quest’anno faremo il tradizionale corso di ebraico biblico a cavallo tra la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo: e vi aspettiamo numerosi.

Come ormai d’abitudine, i principianti saranno guidati da Nicoletta Menini. Dal canto loro, gli avanzati quest’anno leggeranno con Paolo De Benedetti le storie di Giuseppe (Gen 37-45):

La storia di Giuseppe è una composizione letteraria molto singolare, in cui gli aspetti soprannaturali sono assai scarsi, e nel racconto abbondano – come osserva J. Alberto Soggin – elementi narrativi di tipo folcloristico. Più che un documento storico, vale a dire  fonte adeguata per una ricostruzione degli avvenimenti, è un piccolo romanzo che ha tuttavia una’ importanza fondamentale nel passaggio della famiglia dei patriarchi al popolo d’Israele. Il narratore, che scrisse probabilmente al tempo di Salomone, si riferisce a fatti di circa sette secoli più antichi, quando l’Egitto era dominato dagli Hyksos, una etnia asiatica favorevole all’accoglienza di stranieri a loro affini. Ciò spiega come il personaggio Giuseppe abbia ‘fatto carriera’ facilmente alla corte del faraone. Se, come si è detto, nel racconto abbondano gli elementi romanzeschi, lo sfondo storico del XVII secolo a.C. è tuttavia confermato da altre fonti di storia egiziana, mentre i particolari della ‘quotidianità’ sono invece attinti dall’autore a un periodo più recente.

Giuseppe, come del resto suo padre Giacobbe, è uno strumento fondamentale nel disegno di Dio, ma non è un santo: del resto, anche in altri momenti cruciali della storia d’Israele Dio agisce secondo quelle che i biblisti chiamano «teologia del figlio minore» (e che noi potremmo anche correggere in «teologia del figlio peggiore»). È stato osservato che la vicenda di Giuseppe rappresenta la chiave di volta di tutta la Bibbia: egli è lo strumento inconsapevole dell’esodo, dell’alleanza, della nascita del popolo; egli è l’ignaro mezzo di cui si serve Dio per realizzare la promessa fatta da Dio ad Abramo in Genesi 12 e 15.

Nel racconto sono presenti tradizioni jahviste ed eloiste, e non manca un’attenzione psicologica grazie alla quale noi percepiamo – cosa rara nella Bibbia – una certa evoluzione interiore, una certa teshuvà del personaggio, che raggiunge la commozione in Genesi 45,1-3: «Io sono Giuseppe!».

Un’ultima riflessione. Nella storia di Giuseppe, come nelle nostre, Dio è ha-mistatter, colui che si nasconde: l’uomo è lasciato apparentemente a se stesso, e non sa, non saprà mai, qual è il disegno di Dio su di lui.

Saranno con noi ben tre ‘visiting professors’ per approfondire alcuni aspetti del nostro personaggio, e precisamente: Pelio Fronzaroli (L’interpretazione dei sogni nel Medio Oriente antico), un germanista (La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli di Thomas Mann) e Piero Stefani (Storia biblica e storia coranica di Giuseppe: un confronto).

 

Infine un avviso ai lettori: questo racconto consente a chi conosce un poco l’ebraico di gustare nella lingua originale un bel testo letterario, e aiuta i principianti, come Giuseppe aiutò i fratelli, ad ambientarsi senza troppa fatica nell’Egitto della grammatica ebraica. Provare per credere! Chi è ancora più indietro potrà almeno sentire (e godere) il rumore che fa l’ebraico quando è letto. I principianti sono caldamente esortati a imparare, prima del corso, l’alfabeto ebraico che potranno richiederci al momento dell’iscrizione.

 

Paolo De Benedetti

 


 

NOTE ORGANIZZATIVE

Il corso si terrà, come è già  avvenuto nel 1990 e nel 2004, presso la Villa ‘I Cancelli’, via Incontri 21, Firenze, tel. 055/4226001. La villa, dove vivono le suore di S. Dorotea, è situata nelle colline sopra Careggi da dove si gode un bellissimo panorama sulla città. Dispone di un ampio parcheggio, di camere singole (come sempre poche) e doppie, tutte con bagno, di sale per lo studio e per i pasti. Il luogo si raggiunge in automobile (arrivare all’Ospedale di Careggi e da lì chiedere informazioni), oppure con un taxi dalla stazione, o infine con gli autobus 14 dalla stazione fino a piazza Dalmazia e da lì con la navetta 40/B.

La pensione completa al giorno è di € 60 a testa in camera doppia, e in camera singola di € 75. Il costo del corso è di € 80 per i soci di Biblia e per i giovani, e di € 100 per gli altri. I singoli pasti per coloro che non dormono alla Villa è di € 18.

Per l’iscrizione occorre inviare la scheda compilata, insieme al costo della prima notte (rimborsabile in caso di ritiro) e a € 20 di iscrizione, non rimborsabili.


 

RELAZIONE

 

Premessa. Come  è noto a tutti i nostri lettori la tradizione ebraica afferma che ogni passo della Scrittura ha settanta sensi. Già Paolo De Benedetti,  maestro per antonomasia dei corsi di ebraico biblico, aveva indotto ad allungare la lista e a evocare  la presenza di un settantunesimo;  ma però  alcuni discepoli del corso fiorentino, tra cui Paolo…, ci sollecitano a ipotizzare  l’esistenza pure del settantaduesimo

 IMPRESSIONI AUSCULTURALI

   Un'associazione che annualmente organizzasse un corso di ebraico biblico a cavallo d'anno, prospettando (fatto non marginale) un programmino di otto ore giornaliere di studio, sarebbe nella mente dei più: 1. un consorzio di pazzi, frustrati dalla vanitas vanitatum e decisi ad affogare nella polvere dell'anticaglieria il loro bigio scoramento esistenziale; 2. un gerontocomio di integralisti religiosi autoreferenziali, possibilmente anticattolici; 3. una copertura per qualche attività illecita. Poche altre le alternative. Non voglio dilungarmi (ulteriormente) nell'elenco dei pregiudizî pre-affastellati al mio essere-ventenne-nel-terzo-millennio, per cui vengo "a bomba": è stata una settimana di cultura.

   Forse è scontato. Ma che cos'è cultura? Se ne sente parlare tutto il giorno: attaccata a miriadi di fardelli specificativi, la cultura è cultura "dell'Altro" (anche con la  minuscola), "del rispetto", "dell'io", "dell'odio", "della violenza", "borghese", "occidentale", "africana", "islamica", "ebraica"...ecc.ecc., basta aprire un giornale. Quando non si può porre in discussione qualcosa, si chiama in causa la cultura: l'insieme di nozioni-base, i presupposti assunti come tali da una data "civiltà" e il modo in cui essa li ha sviluppati e, se sopravvive, continua a svilupparli. Quale ridotta valenza possa avere questa accezione di cultura, cioè come identità culturale, nel mondo protoglobalizzato, è inutile specificarlo: cultura e identità culturale non possono (e non devono?) essere la stessa cosa.

   Elio Vittorini diceva che "...[la cultura] è la forza umana che scopre nel mondo le esigenze di un mutamento e ne dà coscienza al mondo." (Diario in pubblico, 1957): scoprire nel mondo queste esigenze significa "essere in ascolto" del mondo, e vedere, in gradi diversi, la realtà del mutamento, la sussistenza dell'Altro (uomo, animale, Dio, cosa) in quanto tale. E per conseguenza significa un paradosso: significa per ciascuno di noi sentirsi Altro rispetto a tutto il resto, eppure contemporaneamente in sintonia ad esso in quanto "altro Altro". Uguaglianza radicale nella diversità radicale. Massimamente "fuori luogo" e massimamente "in-luogo": una polarità che Paolo De Benedetti non ha mancato di notare nel suo intervento al centro della settimana sul libro di Stefano Levi Dalla Torre (Essere fuori luogo. Il dilemma ebraico tra diaspora e ritorno, Donzelli, Roma 1995). Ma è proprio questo atipico dell'identità culturale ebraica come consapevolezza del proprio mutare, della propria storicità, che la trasforma in un altrettanto valevole modello "culturale" nel senso più ampio: la rappresentazione di Dio, che direttamente opera nella storia d'Israele e che traspare con maggiore evidenza proprio nel rivolgimento delle sue sorti, per lo più da lui stesso indotto, segna in modo forte la "alterità" degli Ebrei rispetto agli altri popoli coi quali man mano essi entrano in contatto; nondimeno, al contempo, sottolinea la fiducia da parte del popolo di Israele nell'operare con questi "altri" per divenire pienamente se stesso e realizzare il disegno del suo Signore. Così, il forte senso delle radici, attraverso il rispetto della ritualità tradizionale e lo studio genealogico, può essere visto come funzionale non solo al mantenimento della coscienza di essere "diversi", ma anche alla fiducia nell'operare con l'Altro, attraverso la consapevolezza che è proprio nella partenza di Abramo dalla sua terra d'origine e nella diaspora, nelle diaspore, nel "mischiarsi" di Israele agli altri popoli, che si realizza la volontà di Dio. E così anche l'attesa messianica presenta la stessa polarità tra l'essere-in-luogo-e-fuori-luogo: essa è la proiezione (futura) dell'adempimento di una promessa originaria (passata), per cui occorre vegliare, "auscultare" il presente e scrutare i dettagli nelle cui pieghe si occulta il divino (M. Cunz). Scrutare questi particolari implica un calarsi-nel-reale, se non altro per interpretarlo: e quale maggiore polarità tra fuori-luogo e in-luogo può esserci che nella giocosa serietà dell'interpretazione? E cos'altro è la cultura se non questo, interpretazione: un perpetuo bilanciamento di noi stessi, sospesi tra senso e mistero? Quale migliore simbolo della cultura se non la scrittura, e per ciascun popolo la sua scrittura e la sua lingua, sospesa in un suo specifico modo tra significato e significante, realtà e segno? Studiare l'ebraico e la cultura ebraica per noi "occidentali" riveste in questa chiave, io credo, una importanza particolare: tocca alle origini il nostro sentire storico, ci parla dal fondo della nostra identità culturale (chi non è percorso da un brivido a rileggere il Genesi?); ma ci si presenta in forma così "altra" che riusciamo con difficoltà a sillabarne i suoni originarî e dobbiamo captare "acusticamente", come accordi d'inchiostro, l'unità delle sillabe, e però sempre rilevarne analiticamente ogni minuscola appendice vocalica, come ogni nota, se perfettamente intonata, corona la perfezione armonica dell'insieme. Non è solo questione di forma: anche nella variegata pluralità delle recensioni, nel caos filologico del testo “canonico” la scoperta della coerenza non è affidata alla sintassi o alla rigida logicità di un sistema, ma alla sottigliezza del nostro metaforico orecchio.

   La Bibbia chiama ciascuno di noi a contemplare una storia di promesse passate e di speranze future come storia, individualmente ripercorsa, del mondo eternamente presente, dove le une e le altre possono riallacciarsi. Solo però se riusciamo a vivere intensamente ogni istante, senza illuderci che tutto si riduca alla passeggera superficialità dell’attimo: accettare di essere “ponti” e non “confini” tra passato e futuro. Quale più difficile proponimento proprio al volgere della ruota dell’anno-anello? Quale migliore occasione per le nostre identità di mantenersi/riconoscersi nel piano più generale della cultura come prospettive e non come assiomi? Buon ascolto e buona esecuzione!

    Paolo Natali