La qualità dei contributi e la numerosa partecipazione di soci
e non soci al seminario invernale del 1999 dedicato ai babilonesi, hanno
confermato la validità della scelta compiuta da Biblia di occuparsi,
per un certo numero di anni, dei reciproci influssi culturali avvenuti
tra i popoli della Bibbia. In altre parole, per seguire passo passo la
storia biblica è apparso opportuno prendere in considerazione alcune
delle civiltà con cui, a partire dall'esilio babilonese, il popolo
ebraico è entrato più strettamente in contatto Questa impostazione, per forza di cose, deve essere molteplice in
quanto è obbligata a tener conto sia del modo in cui quei popoli
sono visti dalla Bibbia - la quale resta il punto di riferimento castante
del nostro interesse - sia delle maniere in cui quelle civiltà si
sono autonomamente costituite e interpretate, sia, infine, dell'esistenza
di influssi e di intrecci ancora più articolati avvenuti tra popoli
e culture. Nel caso dei persiani la differenza di prospettive tra alcuni modi
biblici di vedere determinati personaggi provenienti da quella civiltà
e la presumibile autocoscienza da essi avuta del proprio operato diviene
particolarmente evidente. II caso più clamoroso è senza dubbio
quello di Ciro. Questo sovrano della dinastia degli Acamenidi (550-530),
dopo aver sconfitto Astiage, re dei Medi, fondò 1'impero di Media
e Persia. Nel 547-546 s'impadronì della Lidia e nel 539 conquistò
Babilonia, permettendo a molti deportati, tra cui quelli provenienti da
Giuda, di tornare ai propri paesi. Letto in questo modo il tutto sembra
risolversi in uno degli infiniti scontri tra potenti che contraddistinse
la storia del Medio Oriente antico. La Bibbia interpreta invece alcuni
di questi avvenimenti in tutt'altra chiave. Per rendersene conto basta
rivolgersi al cosiddetto Libro delle consolazioni attribuito
al Secondo-lsaia (Is 40-55). Nella
sua redazione definitiva questa sezione, scritta da un profeta esilico,
fonda il suo annuncio di liberazione su tre capisaldi: il riconoscimento
dell'unicità e dell'universalità di Dio da parte di tutti
i popoli, la vanità e la falsità degli idoli e la messianicità
del re di Persia: «Così, dice il Signore del suo unto (mashiach),
di Ciro...» (Is 45,1). Quest'ultimo
oracolo - dotato di sorprendenti paralleli con un testo babilonese in cui
Marduch ha «nominato per nome Ciro e lo ha chiamato a dominare su
tutta la terra» - proclama 1'azione diretta del Dio d'Israele nei
confronti del re di Persia che pure nulla sa del Signore. Non a caso, secondo
la proposta del noto esegeta, Claus Westermann, 1'espressione «Davvero
tu sei un Dio che continui a tenerti nascosto, Dio d'Israele che salvi»
(Is 45,15) rappresenterebbe proprio
la risposta del Secondo-Isaia (o di un suo glossatore) all'oracolo relativo
a Ciro (Is 44,24-45,7). Il Dio nascosto
è
colui che opera anche là dove non è riconosciuto. Fatte salve
le differenze di genere, anche per il favolistico libro di Ester si possono
sostenere cose analoghe. Il re Assuero non è altri che il famoso
Serse I (485-465), conosciuto nei libri di scuola per la sconfitta da lui
subita a Salamina; ma al suo riguardo la preoccupazione della Bibbia non
è certo quella storiografica. All'inizio della sua pionieristica opera, Persia religiosa da
Zaratustra a Bahâ'u'llah (Il Saggiatore, Milano 1959), il grande
Alessandro Bausani scriveva: «Dal punto di vista comparativistico,
non è esagerato affermare che lo zoroastrismo ha fornito il materiale
per la costruzione delle leggende escatologiche di tutte le grandi religioni
del mondo civile: I'Islàm, il tardo ebraismo, e in gran parte anche,
per misteriose vie, il mondo delle saghe scandinave, il mondo delle leggende
medievali cristiane sono senza dubbio tributari della religiosità
iranica per le loro visioni angeliche ed escatologiche» (p.19). Vista
a partire da una prospettiva interna, la Persia appare così una
delle fonti più importanti per comprendere quel senso escatologico
che, in modo diretto o indiretto, ha inciso tanto in profondità
nella cultura di tutto 1'Occidente. Tuttavia anche quest'ultima ragione è, per certi versi, ancora
troppo strumentale; la civiltà persiana infatti non ci interessa
solo per quel tanto che ci aiuta a capire noi stessi. Invero questa preoccupazione
è già positiva in quanto implica la convinzione che tutte
le civiltà, ivi compresa ovviamente quella persiana, non sono dei
compartimenti stagni. Le religioni e le culture iraniche vanno studiate
anche in loro stesse; analogamente, Zaratustra ha il diritto di essere
emancipato dal venir associato immancabilmente al nome di Friedrich Nietzsche;
e questo resta vero anche se ben poco si può effettivamente sapere
di colui che i greci chiamarono Zoroastro. Perciò se, grazie a guide
di comprovata competenza, diverranno familiari nomi come mazdeismo,
asha o drug (di cui ora non sveleremo il significato), oltre
ad aver aggiunto qualche conoscenza al proprio bagaglio culturale, avremo
occasione di riflettere su temi cruciali per ognuno di noi, a iniziare
da quelli relativi al bene e al male.
Piero Stefani
RELAZIONE SUL: SEMINARIO
INVERNALE «IL POPOLO DEL RITORNO: L’EPOCA PERSIANA E LA BIBBIA» LUCCA 27-30/01/2000
Ripensare il rapporto tra i “popoli della Bibbia” è sempre fruttuoso
e il seminario di Lucca ne ha dato un’ulteriore conferma perchè
è servito ad illuminare il mondo persiano non solo dalla prospettiva
della fine dell’esilio e del ritorno ebraico, ma anche il modo in cui l’ecumene
iranica è stata vista - nel filtro greco e poi greco-romano - o
non vista dall’occidente; le trasmigrazioni di popoli come quelle di idee
sono sempre produttive, anche se le contiguità e la ricchezza degli
influssi reciproci si possono oggettivamente cogliere solo quando si è
disposti a vedere la trama complessa, ma aperta, degli imprevisti. Basta
pensare che l’ossessione della tradizione cristiana dell’anno millenario
deriva in fondo da una predilezione persiana per il “magnus annus” per
capire come sia impossibile fare la storia dell’occidente nascondendo l’eredità
dell’oriente: si deve imparare anche a rifare al contrario il cammino di
Abramo. La quieta bellezza invernale di Lucca è stata perciò
la cornice di tre intense giornate, dedicate al “popolo del ritorno”, alla
memoria dell’esilio e al postesilio, per la storia del Pentateuco o del
libro di Ester o del messianismo ebraico o dell’apocalittica giudaico-cristiana. Il quadro storico introduttivo l’ha dato con grande chiarezza Antonio
Panaino il quale ha sottolineato anzitutto che Iran e Persia non sono affatto
sinonimi perché con il primo termine si fa riferimento a culture
e tradizioni linguistiche, religiose, storiche che coinvolgono tutte le
civiltà e i popoli dell’area iranica, mentre il secondo va limitato
ad una sola regione, il Parsa delle iscrizioni achemenidi o la Perside
dei Greci. In ogni caso, è con l’ascesa degli Achemenidi che si
crea l’impero persiano, primo grande impero sovranazionale del mondo antico,
sostenuto da molte etnie iraniche e distrutto da Alessandro Magno che conclude
l’epopea greca delle “guerre persiane”; ed è l’impero achemenide
ad esercitare un forte impatto sul mondo ebraico, a partire da Ciro, l’unto
del Signore. L’altro ha invece riguardato il rapporto che si istituisce in epoca
volgare, nel periodo sasanide, tra l’eredità dell’antica religione
di Zoroastro e manicheismo, ebraismo, cristianesimo - da cui deriva la
chiesa duofisita o nestoriana di Persia e soprattutto in riferimento al
modo in cui è percepito e vissuto il dualismo affermato dal mazdeismo.
D’altra parte - ha sottolineato Panaino - “l’ecumene iranica si pone oggettivamente
nel panorama geografico del mondo antico e tardo antico per elezione come
uno dei luoghi di intermediazione culturale, aperto agli influssi occidentali,
indiani e centrasiatici, ma a sua volta capace, attraverso sintesi originali,
di riesportare nuove elaborazioni religiose, artistiche o scientifiche.
In modo particolare, dopo la caduta dell’impero sasanide, la cultura arabo-islamica
non solo sussumerà notevoli apporti della tradizione iranica, ma,
nonostante le inevitabili cesure ed i pesanti scompaginamenti del tessuto
preesistente, farà da veicolo di diffusione di una parte cospicua
di tale patrimonio”. Se il discorso di Panaino è rivolto al dopo,
alla frattura che sembra rappresentare l’irruzione islamica, al prima si
è rivolto Giovanni Pettinato, in una divertente e fine rassegna
del politeismo mesopotamico in una visione sicuramente meno conflittuale
del mondo rispetto alla riscrittura di Ahura Mazda, antica divinità
iranica, da parte di Zoroastro. A sua volta, dal mondo mesopotamico deriva agli Achemenidi l’idea
della regalità che essi sanno sviluppare secondo una politica di
tolleranza che favorisce la governabilità di un impero dalle tante
etnie e con una lingua franca, l’aramaico; una tolleranza che porta
alla ricostruzione del Tempio e che si tramanda come valore positivo
anche più tardi, nella letteratura talmudica che vive il mondo iranico
come alterità possibile. Dal periodo achemenide in avanti deriva anche la conclusione, più
che la nascita - ha detto Daniele Garrone - del Pentateuco come confluenza
di diverse tradizioni, per quanto resti aperto il problema del perché
la redazione non sia avvenuta in aramaico: se una linea critica
mantiene la fonte Jahvista con datazione tarda, una recente linea critica
infatti considera il Pentateuco quale risultato di due tradizioni quasi
coeve, la Deuteronimista, riconducibile ad ambienti laici di piccoli proprietari
indipendenti, che disegna una storia d’Israele segnata da interventi di
Dio e la Sacerdotale che ha creato cielo e terra; nella loro diversità,
esse concorrono a rispondere alle domande sull’identità di Israele. L’achemenide Ciro è l’unto del Signore: questa unzione, considerata
nel contesto della profezia come nei testi classici della letteratura rabbinica,
ha detto Benedetto Carucci Viterbi, inaugura una funzione specifica perché
il Messia in senso proprio è una persona che attraverso l’unzione
assume una funzione. Una regalità sentita come universalità
necessaria al potere ma fortemente connessa alla potenza divina: il legame
stabilito dalla tradizione tra Ciro e Dio si fonda infatti su un potere
che viene da Dio, ma pure sul riconoscimento di Ciro della signoria di
Dio. Dalla notte dell’esilio si esce nell’alba della redenzione e perciò,
secondo la tradizione rabbinica, la voce dell’amato del Cantico è
la voce di Ciro che invita al ritorno in Israele. Dunque a Ciro, era affidata
la funzione di riunire dalla dispersione, ma non l’ha fatto e per questo
provoca la lamentela di Dio contro l’unto-Messia. In ogni caso il libro
di Esdra e di Neemia, come pure quello di Ester, concordano nel dare una
visione positiva dell’impero persiano. A Ester “la nascosta” e al “teatro della memoria” che per
Marinella Perroni rappresenta la Megillah, si ispira il gioco del rovescio
consentito dalla festa di Purim e dal teatro che ne deriva: così,
con il contributo del Comune di Lucca, al Teatro del Giglio è andata
in scena la prima di Purimspiel!, adattamento di Enrico Fink di
Di
Megile di Itzik Manger, scritto nel 1936 ( trasferendo la trama biblica
nella Polonia di quegli anni). Recitato dallo stesso Fink e da Monica Demuru,
con musiche di Dov Seltzer suonate dai Lokshen (Amit Arieli, Stefano Bartolini,
Alessandro Francolini), lo spettacolo è stato giovane e divertente. Anche nella letteratura apocalittica ebraica è però
ravvisabile un chiaro influsso della cultura persiana e di questo ha parlato
Piero Capelli, partendo da Daniele
(7-12), primo tentativo ebraico di pensare la storia in termini
mitico-simbolici, e dal Libro dei sogni di Enoch, contemporaneo di
Daniele e della ribellione dei Maccabei ai Seleucidi. Nel sogno di
Nabucodonosor, poi, la visione della statua che allude alla successione
di quattro regni (Assiria, Media, Persia, Roma), ripete una scansione radicata
nel pensiero persiano e testimoniata dall’Avesta, ed è una scansione
che ritorna negli Oracoli sibillini della diaspora egiziana del 79 e.v.ca.
Origine iranica, ma sviluppo indipendente pur nell’affinità con
le forme più antiche del dualismo zoroastriano e mazdaico - rivela
anche il Rotolo della guerra di Qumran nella descrizione dell’ultima battaglia
tra i Figli della luce e i Figli delle tenebre, guidati da spiriti avversari,
sottomessi al Dio supremo: sono i due gemelli di Ahura Mazda, espressione
della Verità e della Menzogna, poli di un dualismo eminentemente
etico che esalta in Zoroastro l’importanza primordiale della scelta. Sulle origini peraltro di questa stessa escatologia mazdaica le
ipotesi sono molteplici: si fanno risalire ad un’origine babilonese; ad
un’origine persiana; sono messi in relazione con la concezione classica
greca delle origini - testimoniata da Esiodo - evidente nella successione
delle età e dei metalli, forse attraverso la mediazione degli imperi
ellenistici. Non si può nemmeno scartare l’ipotesi che almeno nella
parte tardo-antica il luogo di elaborazione sia Israele. Di queste compresenze e tradizioni alternative o parallele all’apocalittica
giudaica esilica e postesilica nel mondo mesopotamico-iranico ha
poi parlato Aldo Magris, chiarendo anzitutto che, in quanto esperienza
del male o esperienza della “mescolanza” essa non è concetto biblico,
ma di matrice iranica; inoltre essa non parla in codice, ma allude piuttosto
ad una conoscenza segreta, rivolta al visionario/viaggiatore che riceve
l’annuncio del segreto. I gruppi apocalittici non entrano in conflitto
con la Torà, pur avendo regole diverse (per esempio, erano
vegetariani e usavano un calendario solare), ma devono trovare soluzioni
ingegnose per evitare il conflitto: da qui nasce l’idea di una “seconda
Torà”, di una tradizione segreta consegnata da Mosè ai 70
anziani. In un gruppo esoterico di questo tipo cresce Mani (216-277); egli
vuole porsi sulla linea dei “rivelatori”, da Adamo a Paolo - che egli mostra
di conoscere - attraverso il “rapimento in cielo”: nella “visione” di un
angelo attesta se stesso come angelo, nella sua forma eterna. Come Paolo,
è missionario e viaggiatore e va anche in India ed elementi buddhisti
si ritrovano nel suo pensiero, per quanto egli rifiuti l’idea del vuoto;
tracce del suo passaggio rimangono infatti nell’Asia centrale, ma intrise
di elementi buddhisti. Mani non guarda però all’oriente, ma all’occidente dicendo
che “vuole andare dai greci” e greche, nel contesto del regno partico,
sono la Siria, la Palestina, l’Anatolia romana; e nel suo volgersi all’occidente,
ci porta verso altri “popoli della Bibbia”: li incontreremo nel prossimo
seminario...