RELAZIONE SUL VIAGGIO DI STUDIO

Polonia e Lituania, 18-27 giugno 2003


Scrivere su un viaggio unico

A volte un viaggio può assumere il senso del non ritorno. Insieme siamo partiti, ma molti di noi sono rimasti indelebilmente segnati dal percorso svolto nel più confortevole dei modi.

Eppure l’eco di chi fu trascinato via dall’alba, nel peggiore dei modi, di chi vide gli stessi cieli densi che vedemmo pure noi, di chi smise di vivere e non tornò, è una traccia che non verrà cancellata.
Là dove ci fu un numero sul braccio, per noi è stato come sognare un tatuaggio nell’anima.
Pioveva tanto nell’oscuro quartiere ebraico di Cracovia, fra i pochi resti che hanno visto scorrere un fiume umano di tragedia assoluta.
L’acqua piovana aveva formato rivoli e ruscelletti sui selciati.
Qualcuno si preoccupava di bagnarsi troppo.
Davanti a un’unica sinagoga rimasta accanto al suo muto cimitero ricomposto scomparve quella troppo spesso camuffata, allontanata, consapevolezza di dover fare i conti con l’orrore. Qualcosa sappiamo. Poco, ma tanto sapere molto è come sapere poco. Non sappiamo in realtà nulla, noi che beviamo il cappuccino- con-briosche nei nostri ambiti di vita (di cui ci lamentiamo). Nulla. Il disumano è difficile da contenere. L’ignominia è difficile da concepire. Abbiamo camminato sul suolo dove la pura crudeltà si è espressa appieno. Poche briciole di luoghi dato che sarebbero così tanti qui e nel mondo da non poterli percorrere uno per uno. Sono ovunque. Ovunque la storia narra di pura crudeltà, mai di pacifica convivenza civile nei secoli dei secoli. E la seconda guerra mondiale non è che un micro tassello dell’orribile concatenamento di atrocità di cui l’uomo è capace contro i suoi simili.
Il pullman era sempre o surriscaldato o troppo freddo. Qualcuno si lamentava. Forse era un modo per esorcizzare il disagio di fronte all’impotenza che procura il dolore acuto. Qualcun’altro se la doveva prendere con un «ritardatario» rimasto fermo a un monumento commemorativo.
Commemoriamo per lenire la colpa? Cosa commemoriamo dato che il passato non ci ha messo molto a divenire contemporaneo. Siamo proprio capaci di ricominciare, nell’omertà. Purché avvenga altrove.
Eh già, è sempre una storia «diversa».
No, la crudeltà non è mai «diversa». È totale, cieca, illegittima. Non uccidere. Lo hanno detto gli dei di tutti i popoli. No che non uccido. Stermino.
Da questi luoghi è stata spezzata via una cultura, la sua lingua, le tradizioni, la sua gente. Via. In fila, a morire tutti. I sopravvissuti in esilio hanno trasportato quel sapere specialissimo nei libri. Senza le commisture che hanno prodotto il modo di essere ebraico-orientale, senza la stanzialità, le consuetudini non diventano cultura.
È rimasta la memoria. Scritta, ancora da scrivere. Stemprato dal brulichio vitale, il quartiere è stretto attorno a se stesso, ammutolito. Piovevano lacrime dentro le fessure delle case ferite, nel quartiere ebraico di Cracovia.
Non c’è più un ebreo. In compenso stanno ristrutturando gli edifici e hanno aperto localini ebraici perché passano tanti turisti e lì nascerà il quartiere degli artisti (la «Soho» di Cracovia) e presto ci saranno gerani sui davanzali delle finestre. Il passato è passato. Non è vero che è superato. È qui, fra noi, oggi, quel passato. La crudeltà scivola intonsa da un secolo all’altro. Nulla la scalfisce.
Le guide accompagnano i turisti. Le guide sanno che il quartiere ebraico e i ghetti nelle città sono visitati da chi risale in pullman in silenzio ed è contento di alternare ghetti o campi di concentramento con visite a palazzi reali, castelli e chiese barocche. Le guide raccontano doverosamente, quanto epidermicamente, ciò che va spiegato. Nulla più. Le guide sono figlie di persone che hanno denunciato qualche conoscente ebreo? Le guide non partecipano al dolore del visitatore. Come le infermiere, mica possono piangere per ogni paziente che muore. E poi la gente è sollevata nel vedere la bellezza in centro. Si nutre di piaceri come lo shopping, il mangiare bene. Magari si diverte alla cena tipica di cucina ebraica accompagnata da ritmi kletzmer resi sterili poiché eseguiti da musicisti estranei alla cultura degli shtetl. Folklore.
Le città ricostruite (magari con i capitali di chi le ha distrutte) hanno ampi parchi, piazze verdeggianti, giardini. Sono le aree prima occupate dai quartieri popolari. Sono le abitazioni degli ebrei grande presenza nei paesi dell’Europa orientale, un tempo. Prima.
Che bei parchi! Curati! Avessimo noi tanto bel verde! Già. Stiamo camminando sulla distruzione di milioni di esseri umani e del loro habitat. Questo "verde" fa soffrire. C’è sempre un monumento commemorativo dedicato ai deportati. Tanto per lenire la colpa? Si visitano musei, castelli e centri storici con deliziose piazzette dove si intuisce il bello del passato. Un bello depauperato dall’autenticità è bello come quello originale? (riflessione su ricostruire l’identità di una città sceneggiando il passato che diventa bella-cartolina. Perché ricostruire uguale? Quando gli incendi del passato devastavano le case in legno, non furono ricostruite in pietra, uguali).
Rifare uguale forse è fuori luogo come lo è un polacco a Brooklyn che parla in jiddish con uno della «Delicatessen ». Persa la ragion d’essere, ogni palazzo dava la sensazione di essere un orfano da fotografare.
Lungo le strade sulla via per la Lituania abbiamo visto tante cicogne e giganteschi nidi appollaiati sui pali della luce. Fra boschi di pini e betulle, laghi, prati sconfinati, si poteva osservare le case dei contadini, alcune ancora in legno. Cicogne!!! E tutti a guardare, come bambini. Facevamo a gara a chi ne vedeva di più.
Abbiamo dormito in splendidi alberghi stile «international » (uno era ancora vagamente stile soviet). A differenza degli «international» delle nostre parti, questi avevano ascensori piccolissimi, e dunque per portar su le valige e scendere la mattina si formavano file agitatissime. Ora tocca a me! Gomitatine... Piccoli episodi dove veniva evidenziata l’aggressività latente e micro segni d’intolleranza. Vale la pena riflettere su questi comportamenti perché le grandi cose nascono in quanto esistono miriadi di mini segnali troppo facilmente liquidati.
Del viaggio in quanto tale, delle meravigliose persone incontrate, potrei scrivere pagine su pagine... Impossibile dimenticare che siamo tornati senza pensare a chi non è più tornato, a chi è tornato e ha trovato il deserto. Noi abbiamo invece ripreso i gesti della quotidianità, ripreso a bere il cappuccino. Forse non abbiamo accantonato del tutto la riflessione sulla disumana crudeltà che però vediamo sempre altrove.
Il tempo degli spostamenti in pullman riempiti dal sapere diversificato, alternato, di Laura Novati, Pietro Marchesani, e il dono della presenza di Amos Luzzatto capace d’incantare con favole, fiabe e storie lucide, hanno tenuto il gruppo nell’humus del rosario di atroci verità condite però dalla perspicacia dello humour e dall’ironia espresse dal popolo ebraico orientale che i maestri accompagnatori ci hanno trasmesso attraverso brani di letteratura e poesia da loro selezionati.
I nostri maestri comunicavano la forza del dolore e qualcuno, saturo di incredulità, si lasciava cullare dalla voce narrante e tra la vista di un bosco, di un campo di grano o di una casa ancora in legno, si assopiva.
Cosa possiamo davvero fare, insieme, per scalfire l’omertà, per impedire che il rendere gloria alla memoria sia l’unico atto possibile da compiere?

Benedetta Barzini



Siamo coinvolti tutti.
Lettera da Auschwitz

(Da: NOTAM-Milano, 5 luglio 2004 - s. Antonio - Anno XII - n. 223)
Muti e sconvolti, caro Ugo, usciamo il gruppetto di amici e noi, lasciandoci alle spalle la scritta irridente, lugubremente famosa… Ognuno porta il peso di una oppressione senza tregua. Mentre ci avviamo, vengono alla mente le domande, forse quelle di sempre e di tutti: perché, com’è stato possibile, cosa succede oggi, cosa potrebbe di nuovo succedere, che cosa dire, che impegno prendere…
Abbiamo letto molto, ne abbiamo viste tante, ma l’incontro con Auschwitz è sempre nuovo e dirompente. Sembra impossibile che l’uomo – pur accecato e stravolto dalle terribili droghe che hanno imperversato nel secolo scorso – sia stato capace di tanto orrore e tanta ferocia. Il mare di dolore – come dice Primo Levi – ci sommerge e qualcuno non regge alla vista specie dei giocattoli, le bambole, le scarpine… i capelli pronti ad essere trasformati in tessuti… Mi hanno sconvolto anche le tracce di quella ordinata geometrica follia: i preventivi, le fatture per quegli «impianti», per le forniture del Cyclon B. Tutto registrato, le quadrature tutte regolari.
Non siamo stati noi… Sono stati i tedeschi, sono stati i polacchi, sono stati… gli altri! La ricerca di alibi che – ci auguriamo – alla distanza resti infruttuosa. «Chi non parla per gli ebrei non ha diritto di cantare il gregoriano » ha detto Bonhoeffer. Oggi vale ancora, con una precisazione: non ha diritto di cantare comunque da «uomo» chi non si impegna quotidianamente anche contro il razzismo, oltre che per l’antisemitismo – che come sappiamo comunque ri-alligna, e alcune tracce le abbiamo trovate anche noi in Polonia (addirittura al cimitero di Lublino!). Si ragionava così dello sterminio: quella realtà – da una certa data in poi – era nota in Occidente, in Inghilterra e altrove… Gli Alleati avrebbero potuto agire, bombardare, magari. Non abbiamo trovato spiegazioni. Ma quando il regime aveva trionfato, la macchina infernale era in piena funzione è evidente che a quel punto opporsi era molto più difficile. Il problema si deve porre agli inizi. In qualche posto in Europa è successo e i nazisti si sono fermati.
Pietro Marchesani ci ha riferito la difesa del comandante di Auschwitz – scoperto dopo la guerra, processato e impiccato in Polonia. Avrebbe detto: Se io vado a caccia di scimmie, sparo e le uccido, qualcuno avrebbe da obbiettare? Naturalmente no (invece sì! ndr). Ebbene per gli ebrei, che non sono uomini, vale lo stesso criterio! Mi ha molto colpito l’affermazione che ci ha ricordato Amos Luzzatto. In un certo senso «Hitler ha vinto». E in effetti dopo questo viaggio in Polonia possiamo dire che è totalmente sparita una cultura, delle competenze, un popolo. Oggi, nonostante l’attenzione, il recupero e le ricostruzioni, rimangono solo delle tracce.
Caro Ugo, parliamo pure anche di noi. Gli italiani brava gente, che hanno salvato tanti ebrei e il cui antisemitismo fascista era più «blando» (e magari in parte è stato anche vero). Nell’agosto 1938 uscì il famigerato «Manifesto della razza» sostanzialmente senza nessuna reazione degli italiani (e della chiesa). E poi, persino una rivista quindicinale, «la Difesa della razza» dall’agosto ’38 fino addirittura al giugno del 1943. Umberto Eco, nella prefazione a un utile libretto dell’Unità che ripercorre quelle vicende (Educare all’odio di V. Pisanty), scrive: «… difficile oggi leggere queste pagine senza provare un sentimento a metà tra l’orrore e il sarcasmo: come è possibile che queste cose siano state scritte, che molti le abbiano lette, che tantissimi le abbiano credute, che la maggioranza degli italiani le abbia ignorate, o tollerate, o lasciate passare come innocente esercizio filosofico e parascientifico? Eppure questo è accaduto… a vergogna del nostro paese, e non basta dire che in altri paesi si è fatto o scritto di peggio». Era allora che era necessario intervenire. Prevenire è meglio che curare e i primi sintomi di un male – e che male – si contrastano più agevolmente del fenomeno conclamato. Ecco il buon fondamento dell’impegno irrinunciabile che oggi è per noi e per tutti i «pensanti».

Giorgio Chiaffarino



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