APPROFONDIMENTI CULTURALI XXII
(ANNO XIV, N.3)
LA REVISIONE DELLA BIBBIA
A pochi anni dalla revisione del Nuovo Testamento della Bibbia CEI (1997), è ora giunta a termine, sia pur in forma provvisoria, anche la nuova versione dell'Antico Testamento. Mons. Carlo Ghidelli, biblista e Assistente ecclesiastico generale dell'Università Cattolica, ha partecipato all'impegnativa opera e presenta qui alcune riflessioni sul significato del lavoro svolto e sulle difficoltà incontrate. L’articolo va quindi collocato entro un contesto confessionale. Riteniamo però che possa fornire molti spunti di interesse per tutti. Ringraziamo il direttore della rivista, Mons. Bruno Maggioni e l’autore, per il permesso datoci di ripubblicarlo in questa sede.
Nei prossimi mesi sarà pubblicato in forma provvisoria e ad
experimentum un volume che contiene la revisione dell’Antico Testamento
della Bibbia CEI, edita per la prima volta nel 1971 e, dopo qualche leggera
correzione, nel 1974. Qualche anno fa, esattamente nel 1997, dopo dieci
anni di lavoro, è arrivata in porto la revisione del Nuovo Testamento
della Bibbia CEI. Anche quella pubblicazione fu ad experimentum
e non poche ulteriori proposte di miglioramento sono arrivate e saranno
certamente recepite. Qualcosa di simile avverrà anche nei prossimi
anni riguardo alla revisione dell'Antico Testamento, che ci ha impegnati
per non pochi anni, con l'impiego delle risorse di alcune decine di esperti,
preziose soprattutto per la competenza linguistica, letteraria e liturgica.
Come è facile supporre, per l’Antico Testamento le difficoltà
sono aumentate di molto rispetto al Nuovo. «Dai testi della Bibbia
ci separano infatti dai duemila ai tremila anni - scrive opportunamente
R. Pesch - ci dividono epoche storiche, la cultura e il pensiero sono cambiati,
ci separano generazioni e tradizioni. Non viviamo più nel mondo
della Bibbia, anche se il suo messaggio continua a vivere nel nostro mondo,
variamente fondendosi in esso. Anche nei paesi della Bibbia, anche a Gerusalemme,
non si vive più nel mondo della Bibbia... i testi biblici sono scritti
in lingue straniere per persone di altre epoche».
Le riflessioni che qui vengono proposte hanno un duplice scopo:
anzitutto di informare circa il lavoro fatto, le difficoltà incontrate,
gli ostacoli superati e altro ancora, e ciò potrebbe interessare
soprattutto coloro che svolgono un'azione pastorale all’interno delle comunità
cristiane. Il secondo scopo invece consiste nell’offrire alcuni esempi
della revisione della Bibbia in oggetto affinché ciascuno si renda
conto del lavoro fatto e dei risultati raggiunti.
La mia testimonianza si limita ai libri sapienziali dell’Antico
Testamento - esclusi i Salmi - perché di questo gruppo (al quale,
in seconda battuta, sono stati affidati anche i libri didattici di Tobia,
Giuditta ed Ester) sono membro (insieme ad A. Minissale e G. Villani) e
coordinatore: un ambito ridotto rispetto a tutto l'Antico Testamento, ma,
come si sa, molto difficile e delicato. Per questo è stato necessario
ricorrere alla competenza di alcuni esperti, non solo nella fase preliminare
ai lavori (A. Nicacci, A. Bonora, Maria Brutti, G.F. Ravasi, Anna Passoni
dell’Acqua e altri ancora), ma anche cammin facendo (F. Della Vecchia,
R. Filippini, P.G. Paolini, F, Vannini, S. Barbaglia). Il loro contributo
si è manifestato oltremodo significativo.
Le caratteristiche di una buona traduzione
È risaputo che tradurre è una delle arti più
difficili che esistano. Su questa arte grava anche l’ombra dei detto: «Tradurre
è un po’ sempre tradire». Non è vero del tutto, ma
c’è molto di vero in questo assioma. Chi ha una lunga esperienza
in questo campo non può non confessare un senso di impotenza e di
incapacità a trasporre in una lingua parlata contenuti rinchiusi
in espressioni e termini appartenenti a lingue antiche, come sono quelle
bibliche.
Ma il traduttore si sente investito di un altro compito, che è
quello di essere mediatore tra due mondi culturali, che si esprimono appunto
in due lingue diverse: tra questi mondi e tra queste lingue, che egli si
sforza di conoscere al meglio, svolge un'opera di mediazione necessaria
e pur tanto delicata, senza la quale moltissimi credenti non avrebbero
la pur minima possibilità di accostarsi al messaggio biblico. Molte
altre cose si potrebbero dire del traduttore, alcune delle quali saranno
raccolte al termine di queste considerazioni. Ma ora è necessario
delineare le principali caratteristiche di una buona traduzione.
La prima è indubbiamente quella della fedeltà:
si intende la fedeltà al testo originale, sia esso ebraico o greco.
Questa nota è da considerare come la prima in senso assoluto. Infatti
se manca la fedeltà al testo biblico criticamente ricostruito -
fin dove è possibile ricostruirlo - ogni traduzione slitta fatalmente
verso la parafrasi, verso l’interpretazione. Tuttavia - è doveroso
dichiararlo esplicitamente -una fedeltà assoluta non è possibile
per molteplici e svariate ragioni. Basti accennare a una: i mondi culturali
sottesi a due lingue diverse, soprattutto se esse sono distanziate di secoli
nel tempo, sono assai diversi ed è molto difficile che ad un’area
semantica del primo mondo corrisponda esattamente un’area semantica della
lingua moderna.
Sotto il profilo della fedeltà al testo originario la presente
revisione ha fatto passi da gigante: lo hanno riconosciuto esplicitamente
i revisori che, per ultimi, hanno fatto alcune verifiche estremamente minute.
Ecco alcuni esempi:
Giobbe 4,16
CEI ‘74: Stava là ritto uno, di cui non riconobbi
l’aspetto,
un fantasma stava davanti ai miei occhi...
Un sussurro.... e una voce mi si fece sentire:
Proposta: Si fermò là uno, ma non riconobbi
il suo aspetto,
una figura davanti ai miei occhi:
un attimo di silenzio; poi udii una voce:
È solo il caso di notare che in questo modo si ricupera una informazione preziosa: infatti il termine ebraico demamah esprime il silenzio pieno di terrore prima che si oda la voce, esattamente ciò che nella traduzione precedente non era stato tradotto.
Giobbe 5,7
CEI ‘74: ma è l’uomo che genera pene,
come le scintille volano in alto.
Proposta: poiché l’uomo è nato per il dolore,
mentre le scintille si innalzano volando.
Per cogliere la novità della proposta è necessario fare due osservazioni: anzitutto occorre essere fedeli al Testo Masoretico per ciò che riguarda il verbo iullad (è nato); in secondo luogo occorre tradurre ’amal nello stesso modo del versetto precedente, cioè con «dolore». Ancora una volta è la fedeltà al Testo Masoretico che suggerisce una miglioria non trascurabile.
Giobbe 11,4
CEI ‘74: Tu dici: «Pura è la mia condotta,
io sono irreprensibile agli occhi di lui».
Proposta: Tu dici: «Pura è la mia parola,
io sono irreprensibile agli occhi di lui».
La novità consiste nel sostituire «parola» a «condotta» per il semplice motivo che il termine ebraico Ieqah, negli otto casi in cui compare nell’Antico Testamento non ha mai significato di 'condotta', ma appartiene sempre ad un’area semantica che dice riferimento alla 'parola'. Il significato dell'espressione sottolinea il fatto che quanto Giobbe ha detto non è menzognero. Per questo motivo altri traducono «dottrina».
Una seconda nota della traduzione è la bellezza: intesa
non solo in senso estetico, formale e letterario, ma anche in riferimento
ai contenuti che, soprattutto in gergo letterario poetico, richiedono di
essere presentati in termini attraenti. Ogni buon traduttore, sotto questo
profilo, deve avere anche una buona preparazione letteraria, deve avere
il gusto del bello, nella convinzione che solo così la sua mediazione
raggiunge un livello eccellente.
Si tratterà però sempre di una bellezza castigata,
se si vuole coniugarla con la precedente nota della fedeltà. Fedeltà
sostanziale e bellezza castigata sembrano essere le due principali note
di una buona traduzione. Sotto questo profilo è doveroso informare
che abbiamo fatto buon tesoro di migliorie proposte da alcuni veri esperti
nella letteratura biblica sapienziale: A. Vaccari, A. Minissale, G.F. Ravasi
e L .A. Schoekel.
Anche a questo proposito è giusto offrire qualche esempio
che prendiamo dal libro del Cantico dei cantici.
Agili ed essenziali sono i ritocchi apportati al più poetico dei
libri sapienziali, ma degni di essere segnalati. A noi pare di aver contribuito
un poco alla bellezza formale della versione in lingua italiana.
In 5,2 e 6,9,
a proposito della sposa oggetto del desiderio dello sposo, abbiamo pensato
che il termine ebraico corrispondente potesse essere tradotto non con «perfetta
mia», ma con «il mio tutto». Il concetto di perfezione
sembra poco consono a un linguaggio amoroso; in realtà lo sposo
nel suo giardino, che è la sposa, trova tutto ciò che il
suo cuore può desiderare.
In genere abbiamo sostituito «diletto» con «amato»,
in relazione alla sposa che si rivolge allo sposo ma, quando il discorso
è in forma diretta, allora abbiamo pensato opportuno adottare il
vocabolo, per altro oggi di largo uso, «amore, l’amore mio».
Così in 2,7; 3,5 e in 3,1.2.3.
abbiamo tradotto «l'amore dell’anima mia» invece che «l’amato
del mio cuore». In particolare, all’inizio del cap. 6, abbiamo apportato
i seguenti ritocchi, tutti ovviamente motivati:
- «bellissima» invece di «bella»,
- lo cerchiamo» invece di lo possiamo cercare»,
- «è» invece di «era»,
- «io appartengo al mio amato» invece che «io
sono per il mio diletto».
In 7,13, invece che «là
ti darò le mie carezze», seguendo anche la Nova Vulgata
(amores meos) abbiamo tradotto «là ti darò il mio
amore», mentre la Vulgata legge ubera mea. In ebraico
abbiamo il plurale dôdîm.
Un altro pregio di una buona traduzione è indubbiamente la
chiarezza. Già a priori si potrebbe dire che un’espressione,
una frase, un periodo non chiari, cioè di non immediata comprensione,
sono da ritenersi una cattiva traduzione, anche se l’addebito non cade
tutto solo sul traduttore. Mi pare significativo l'esempio seguente:
Siracide 34, 3
CEI ‘74: Questo dopo quello: tale la visione di sogni,
di fronte a un volto l'immagine di un volto.
Proposta: Le visioni del sogno stanno alla realtà
come il volto nello specchio sta a quello vero.
La novità, questa volta, sta tutta nella maggiore scorrevolezza
della frase e, ancor prima, nella maggiore chiarezza che si sprigiona dal
paragone offerto. Non c’è dubbio che sotto il profilo estetico questa
proposta, senza tradire il significato del testo ebraico, si presenta più
gradevole al nostro orecchio e il lettore non deve fare eccessivi sforzi
per cogliere il significato inteso.
Accanto alle prime tre note, è assolutamente necessario indicarne
un'altra: l'incompiutezza. È stato rilevato da molti, e non
si può non convenire su questo giudizio soprattutto se si fa l’esperienza
del tradurre in gruppo: a un certo punto ci si deve accontentare dei risultati
raggiunti, anche se essi non sono del tutto eccellenti. Anche quando le
competenze dei traduttori sono diverse e complementari e perciò
si è speso già molto tempo nel confronto - talvolta nello
scontro - si deve purtroppo constatare la concreta impossibilità
di arrivare a un risultato soddisfacente per tutti. Per questo motivo ogni
traduzione, proprio perché è un’incompiuta, è sempre
perfezionabile.
Potrei indicare parecchi esempi di tale insoddisfazione. Ne offrirò
solo uno: una vera crux interpretum - come si sa - è costituita
da
Qo 3,11ed
è effettivamente difficile proporre una soluzione capace di soddisfare
le attese di tutti. Qui il traduttore deve farsi interprete, perché,
attraverso l’espressione
’et-ha‘olam, entra in gioco il concetto
di 'eternità'. Basta confrontare alcune versioni antiche e moderne
per rendersi conto della infinita varietà di scelte messe in atto.
Luzzato: e anche il senso dell’eternità ha posto
nel cuore dell'uomo.
Bibbia CEI: ma egli ha messo la nozione dell’eternità
nel loro cuore.
0mnibus perpensis, dopo lunga riflessione, ci è sembrato
doveroso offrire una traduzione la più letterale possibile, senza
aggiungere alcuna informazione al testo ebraico. Questo fu anche il suggerimento
del compianto A. Bonora, uno dei revisori di prima istanza. Abbiamo perciò
tradotto: «Egli ha fatto bene ogni cosa a suo tempo; inoltre ha
posto nel loro cuore l’eternità, senza però che gli uomini
possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine».
Nello stesso tempo sarà necessario offrire una «nota
esplicativa» che indichi l’ambiguità della radice ebraica,
che può significare sia «essere nascosto, segreto»,
sia «mondo, eternità». La nota dovrebbe pure esplicitare
il fatto che, essendo questo un dono fatto a tutti perché fa parte
della natura umana (vi è una certa ambiguità anche nel v.
11b), l’uomo può solo intravedere qualcosa di ciò che sta
tra la durata del tempo e l’oltretomba, tra il mondo presente e futuro,
tra la storia e l’eternità.
Si direbbe una povertà congenita quella che caratterizza
ogni traduzione: una povertà però consapevole e umile. Proprio
per questo essa prelude ad una ricchezza ulteriore e più grande
che ci sta sempre dinanzi. In termini teologici si direbbe che anche la
traduzione della Bibbia partecipa del mistero dell’Incarnazione, dove ricchezza
divina e povertà umana si incontrano in una sintesi misteriosa.
Si legge nella Dei Verbum, n. 13: «Nella Sacra Scrittura dunque
restando sempre intatta la verità e la santità di Dio si
manifesta l'ammirabile condiscendenza della eterna Sapienza, "affinché
apprendiamo l’ineffabile benignità di Dio e quanto egli, sollecito
e provvido nei riguardi della nostra natura, abbia contemperato il suo
parlare" (S. Giovanni Crisostomo). Le parole di Dio infatti, espresse
con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come
già il verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze della
natura umana, si fece simile agli uomini».
La traduzione della Bibbia come ministero nella Chiesa
Ogni comunità che riconosce e venera la Bibbia come segno
manifestativo della presenza di Dio, affida più o meno esplicitamente
a qualcuno dei suoi il compito di rendere il messaggio biblico in termini
leggibili e comprensibili. Una comunità di fede, infatti, non può
vivere e tanto meno alimentare la sua fede senza un costante riferimento
alla parola di Dio scritta.
Ma di questa parola scritta è bene cogliere subito la vera
natura. Per dirla con un’espressione di K. Barth, la Bibbia è «segno
del segno della Parola di Dio». In altri termini: è segno
scritto di quel segno orale che fu la predicazione profetica e apostolica,
la quale a sua volta fu segno dell’evento storico-salvifico di Dio che
ha parlato al suo popolo: all’antico popolo di Israele per mezzo dei profeti,
e, nella pienezza dei tempi, per mezzo del Figlio al mondo intero.
Ma come è possibile descrivere l'esperienza del tradurre
intesa non come affare personale o privato, bensì come esperienza
ecclesiale-comunitaria?
E tradurre la Bibbia per noi è stata anzitutto un'esperienza
religiosa autentica, un continuo e metodico accesso a quel mistero
che abbiamo appena descritto. Anche se le discussioni vertevano necessariamente
spesso su questioni altamente specializzate, non mancava mai tuttavia la
nostra attenzione ai risvolti esegetici e alle implicanze teologiche delle
pagine bibliche sottoposte ad analisi. In questo modo possiamo dire con
estrema sincerità che il nostro lavoro, giorno dopo giorno, assumeva
sempre più le sembianze di un approccio discreto, ma metodico, a
quel «roveto ardente» che per ogni credente oggi è riconoscibile
nella Bibbia (vedi Es 3,1-10).
Per noi tradurre la Bibbia con un mandato particolare e per una
precisa comunità, è stato anche l'esercizio di un vero
e proprio ministero: un servizio alla comunità cristiana pellegrina
in Italia. Abbiamo così risposto alle indicazioni recentemente offerteci
dai vescovi italiani in una Nota pastorale che porta il titolo La Bibbia
nella vita della Chiesa: «In modo particolare la Nota
si rivolge a quanti nella Chiesa sono posti al servizio della Parola, perché
prendano sempre più viva coscienza e rafforzino capacità
e coraggio per realizzare un compito tanto valido e impegnativo: introdurre
tutto il popolo di Dio alla ricchezza inesauribile di verità e di
vita della Sacra Scrittura... Insieme alla preparazione delle persone,
bisogna attendere alla elaborazione di strumenti e sussidi opportuni per
un’efficace incontro con la Bibbia. Il punto di partenza è lo stesso
testo sacro, espresso in una buona traduzione» (nn. 4 e 38).
Infine il ministero della traduzione biblica può essere configurato
anche in termini di traditio - redditio: infatti ciò che
ci è stato consegnato come Parola di Dio espressa nelle lingue bibliche
abbiamo sentito il dovere di riconsegnarlo in termini nuovi, in veste letteraria
nuova, più accessibile ma soprattutto più comprensibile.
Tale 'consegna' diventa ancor più significativa e impegnativa se
si pensa che la Bibbia tradotta confluirà nei lezionari liturgici.
A proposito di questa serie di riflessioni offrirò alcuni
esempi nei quali le nostre proposte hanno tenuto conto della Nova Vulgata,
che i vescovi ci avevano indicato come punto di riferimento necessario.
In Sir 15,10b, mentre la Vulgata
aveva Dominator con l’iniziale maiuscola per alludere a Dio, la
Nova
Vulgata ha dominator e così propone un altro significato
per il termine kúrios del testo greco. Perciò mentre la CEI
‘74 aveva:
-La lode infatti va celebrata con sapienza
ed è il Signore che la dirigerà
noi, con Vaccari, proponiamo:
-La lode infatti va celebrata con sapienza
e chi la possiede ne sarà maestro.
In 17,8 la Nova Vulgata richiede
di rivedere l’attuale versione della CEI:
-Pose lo sguardo nei loro cuori
per mostrar loro la grandezza delle sue opere.
Ecco invece la nostra proposta, che tiene conto del timorem
suum della Nova Vulgata:
Pose il timore di sé nei loro cuori
mostrando loro la grandezza delle sue opere.
Parimenti in 18,14 non si tratta solo
di 'dottrina', ma della doctrina miserationis. Perciò mentre
la versione della CEI propone:
-Ha pietà di quanti accettano la dottrina
e di quanti sono zelanti per le sue decisioni
la nostra proposta è la seguente:
-Ha pietà di chi si lascia istruire nella misericordia
e di quanti sono zelanti per le sue decisioni.
Nel cap. 31 abbiamo seguito la Nova
Vulgata nei seguenti casi: 31,1:
non «l’insonnia per la ricchezza» ma «l’insonnia del
ricco» (vigilia divitis);
31,16:
non «mangia da uomo» (CEI) o «da vero uomo» (Minissale)
o «come uomo» (Vaccari) o «comme un homme»
(Dhorme) ma, sulla scia della Nova Vulgata: utere quasi hom ofrugi his,
quae tibi apponuntur, noi abbiamo tradotto «mangia da uomo frugale
ciò che ti è posto dinanzi».
31,27d:
la Nova Vulgata legge
ab initio e noi abbiamo pensato di
conservare questa preziosa informazione. Perciò invece di:
Che vita è quella di chi non ha vino?
Questo fu creato per la gioia degli uomini.
Noi proporremmo:
Che vita è quella di chi non ha vino?
Fin dall’inizio è stato creato per la gioia degli
uomini.
Ovviamente sono innumerevoli i casi nei quali abbiamo tratto profitto dalla lectio della Nova Vulgata, non solo in ossequio alle direttive ricevute, ma anche in ragione della 'bontà' delle sue proposte. Come abbiamo avuto modo di verificare, in alcuni casi a ragion veduta ci si deve scostare anche dalla Nova Vulgata. Ne deriva che anche questo criterio, a nostro avviso, va contemperato con gli altri in vista di scelte che, caso per caso, sono il frutto di un giudizio globale e ponderato.
Quale valore assume una traduzione biblica per la comunità?
La risposta a questo interrogativo va formulata con estrema attenzione,
anche per il motivo che ogni comunità cristiana ha diritto di accogliere
nelle proprie mani (vedi 1Mac
12,9) una Bibbia che sia strumento per la sua vita spirituale,
per le sue celebrazioni liturgiche, per la sua testimonianza nel mondo.
Tradurre la Bibbia oggi significa accogliere una precisa istanza
del Concilio Vaticano II e offrire una risposta adeguata. Afferma il
Concilio: È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra
Scrittura. Per questo motivo la Chiesa fin dagli inizi accolse come sua
l'antichissima traduzione greca dell’Antico Testamento, detta dei Settanta;
e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine,
particolarmente quella che è detta Volgata. Ma poiché la
parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa
cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e
corrette nelle varie lingue, a preferenza dai testi originali dei sacri
libri. Queste se, secondo l'opportunità e con il consenso dell'autorità
della Chiesa saranno fatte in collaborazione con i fratelli separati, potranno
essere usate da tutti i cristiani» (Dei Verbum, 22).
Tradurre la Bibbia oggi significa anche dare una fattiva e valida
collaborazione
alla pastorale biblica delle comunità cristiane: una pastorale
che, sempre nella luce del Concilio Vaticano Il, sta consolidando il suo
cammino all'interno delle nostre comunità. Il pericolo, non ancora
del tutto scongiurato, è quello di pensare a molteplici e svariate
iniziative inerenti all’apostolato biblico senza mai, o quasi mai, giungere
al contatto vivo e vivificante con il testo biblico, con il libro sacro.
È urgente invece che l’apostolato biblico faccia quanto prima un
salto di qualità e ciò potrà essere facilitato dalla
revisione della Bibbia in lingua italiana che, nel giro di pochi anni,
si spera di poter mettere nelle mani di tutti i fedeli.
Tradurre la Bibbia oggi significa anche prestare un contributo
decisivo alla causa dell’ecumenismo, inteso non certo come una moda
da seguire, bensì come un movimento che porta le singole confessioni
cristiane verso il grande traguardo dell'unità delle Chiese. In
questo campo di lavoro sono testimone di non pochi traguardi raggiunti:
la traduzione della Bibbia in lingua corrente fatta insieme da cattolici
e protestanti, la recente traduzione ecumenica del Vangelo di Giovanni,
opera anch’essa di una collaborazione tra protestanti e cattolici, ma soprattutto
la molteplice e ricca collaborazione tra cattolici e protestanti in Italia
per la diffusione della Bibbia negli ambienti più disparati.
Una buona traduzione biblica oggi costituisce anche un valido strumento
all’azione missionaria della Cbiesa. Come i primi cristiani hanno acquisito
una chiara consapevolezza del loro essere missionari nel mondo per il loro
contatto con Gesù, Parola di Dio fatta persona, e con gli Apostoli,
i primi grandi servitori della Parola, cosi anche oggi una comunità
cristiana non può prendere coscienza della sua missionarietà
e tanto meno vivere la missione come suo compito primario e irrinunciabile
se non si tiene in costante, religioso ascolto della parola di Dio scritta
e della viva predicazione della Chiesa.
Conclusione
Non vorrei lasciare un'impressione troppo negativa nei lettori,
ma più ci si addentra nell’arte dei tradurre più ci si rende
conto che ogni traduzione, compresa quella biblica, comporta una certa
qual violenza al testo. Sono ben note e sempre valide le riflessioni di
J.W. Goethe: «Non si riflette mai abbastanza al fatto che una lingua
è propriamente soltanto simbolica, metaforica e che non esprime
gli oggetti mai in modo immediato, ma solo di riflesso ... E tuttavia come
è difficile non porre il segno al posto della cosa, avere l’essenza
sempre dinanzi a sé e non ucciderla con la parola».
Ciò è ancor più vero di una traduzione, di
ogni traduzione. Infatti, per chi ha un minimo di sensibilità letteraria
e sa che ogni composizione, soprattutto se poetica, è un piccolo
capolavoro che resiste a ogni tentativo di trasposizione, assumere ed esercitare
il compito del traduttore è un po' come una tortura, un continuo
sentirsi sottomesso al giudizio dell’autore, prima ancora che a quello
dei lettori.
Ritengo estremamente valida questa avvertenza di R. Pesch: «Il
lettore ingenuo, cosiddetto senza pregiudizi, vorrebbe di solito cogliere
subito le cose nel testo, e non pensa che la res di un testo, il
messaggio di un testo 'vi' è solo nella sua lingua, che essa 'vi'
si trova in modo manifesto e insieme velato e che si sottrae a ogni tentativo
temerario di cattura; egli non pensa che il linguaggio è una struttura
fragile e ha bisogno di un uso prudente, se la vita non vuole essere soffocata
e la 'cosa' che in essa traluce essere distrutta e fatta scomparire. Chi
«circonda di palizzata - per dirla con Goethe - la parola di un testo,
chi strappa la parola dal suo vivo contesto, chi ne fa una formula maneggiabile,
comoda, magari dogmatica, si è già allontanato dal messaggio
del testo».
Ogni traduttore che ha la consapevolezza dei suo ministero, oltre
al senso di insoddisfazione di cui si diceva prima, avverte l’irrinunciabile
dovere di portare anche il lettore a condividerla. Ogni testo è
come un organismo vivente e non si lascia vivisezionare. Nella prospettiva
della fede, accostarsi al testo biblico significa accostarsi a uno di quei
'segni' della presenza del Dio vivente in mezzo a noi, che sono il nostro
viatico.