PIERO STEFANI
RISO ED EBRAISMO
La battuta, il motto di spirito, la storiella, la barzelletta sono
parole che si riferiscono a un ambito più variegato di quanto
possa sembrare a colpo d’occhio. I primi due termini indicano una realtà
sorgiva, apparsa improvvisamente in un contesto preciso, solo entro
il quale mantengono la loro autentica vivezza; una battuta
può anche essere riferita, anzi alcune di esse sono diventate
dei veri e propri topoi; eppure la loro ripetizione comporta sempre
un allontanamento dal «fuoco delle origini» e dall’inventiva
che sa cogliere un accostamento inatteso, un paragone imprevisto, un doppio
senso non colto dai più e così via. Non a caso, quando
si racconta una battuta occorre, di norma, trasmettere qualcosa
delle circostanze in cui è sorta: in quel luogo, in quel tempo,
quella determinata persona ha detto così e così. Al
contrario, la storiella e la barzelletta sono congegnate proprio per essere
ripetute e per instaurare una catena aperta in cui si continua a
passare dalla bocca dell’uno agli orecchi dell’altro. In questo transitare
esse godono di tanta maggior salute quanto più, pur
evitando il rischio dell’espansione pletorica, sono parzialmente
rinnovate e arricchite di varianti. La ripetizione meccanica di una
storiella la consegna a una monotonia captata sotterraneamente anche
da chi la sta ascoltando per la prima volta.
Motto di spirito e storiella, pur essendo tendenzialmente orientati
in direzioni opposte, si riferiscono però pur sempre a un ambito
comune: l’oralità; entrambi infatti sono consegnati a una specie
di rigor mortis quando divengono materiale scritto. La differenza che passa
tra i libri che raccolgono, ordinandoli per genere e specie, battute, motti
di spirito, storielle o barzellette e la dimensione orale in cui
tutti questi tipi di umorismo sono nati, richiama quella che distingue
le bacheche dell’entomologo da un libero e lieve svolazzare di farfalle.
A vantaggio dei testi scritti vi è solo il fatto che, nei casi migliori,
i loro contenuti possono diventare tracce da riconsegnare a chi li sa riraccontare;
di contro solo un essere divino potrebbe, battendo le mani, far spiccare
il volo ai coleotteri posti sotto vetro nei musei di scienze
naturali.
La sala di rianimazione delle storielle è lo spettacolo in
cui un bravo attore le rivitalizza rinarrandole; tuttavia la prognosi resta
riservata in quanto rimane lo scompenso strutturale in cui uno solo racconta,
mentre tutti gli altri stanno semplicemente ad ascoltare. La vecchia battuta
del cabarettista che risponde «orecchio» allo spettatore che,
non riuscendo bene a captare un doppio senso un po’ spinto, gli aveva gridato
«voce», sintetizza bene questa invalicabile diversificazione
di ruoli. La situazione artificiale propria di uno spettacolo impedisce
la coralità degli interventi che è il succo stesso del raccontare
in modo amicale barzellette, cioè di una situazione in cui ognuno
dei protagonisti vuole aggiungere la sua: tra uno spettacolo basato su
storielle e un gruppo di amici che si dedica alla stessa attività
vi è la medesima differenza che passa tra un regime
monopolistico e uno basato sulla libera concorrenza.
Quanto più si moltiplicano i libri, gli spettacoli,
i film imperniati sulle storielle e sui motti di spirito ebraici
tanto più si diventa consapevoli dell’esistenza di una distanza
incolmabile che ci separa dal contesto in cui è rigogliosamente
germinato l’umorismo ebraico. Senza dubbio, prima che sorgesse questa
specie di «moda culturale», fuori dalla cerchia
degli «addetti ai lavori» si ignorava semplicemente la
realtà del Witz e dell’umorismo ebraici. L’inattesa scoperta di
questo mondo ha fatto sì che molti, invece di avvertire un estraneamento,
credessero di conoscere davvero un ambiente. In effetti per
rendersi conto di quest’ultimo non basta leggere libri e assistere
a spettacoli i cui protagonisti si chiamano Moischele, Sarele,
Davidele e in cui molto spazio è riservato a qualche implacabilmente
amorosa jidische mame. Invero un certo progresso potrebbe derivare
anche dal porsi questa semplice domanda: perché in quelle
storielle non ci si imbatte mai in un Ravenna, in un Ottolenghi, in un
Morpurgo, in un Di Nepi o in un qualsiasi altro personaggio contraddistinto
da un tipico cognome di ebrei italiani? A ben pensarci il massimo
concesso è infatti di incontrare qualche ebreo triestino di
confine. Tuttavia anche questo rilievo, per quanto pertinente, non è
comunque sufficiente in quanto, per affrontare in modo convincente
simili temi, occorre impostare un discorso dal respiro addirittura
plurisecolare.
L’opinione secondo cui l’umorismo sia una cifra propria dell’animo
ebraico si sposa di solito con la convinzione stando alla quale la sua
essenza è ben espressa dalla sentenza proverbiale: «si
ride per non piangere». Tutto ciò risulta con particolare
evidenza quando ci si deve confrontare con l’antisemitismo; infatti, in
tal caso, l’umorismo esprimerebbe essenzialmente «la tecnica psicodinamica
con la quale il popolo ebraico» per quasi venti secoli «affrontò
e sopportò i tremendi colpi inflittigli dall’antisemitismo»
. Davanti all’antisemita l’ebreo è a priori un colpevole,
ogni tentativo di difendersi con argomenti ragionevoli non
fa, quindi, che aggravare la sua situazione; in simili casi si è
presi entro una spirale senza scampo. L’unica risposta sta allora
nel trasferire la replica su un altro piano, quello appunto
del Witz in cui si comprende che affrontare l’antisemita sul
suo stesso piano equivale già a un’implicita ammissione di colpa.
L’umorismo ebraico prende quindi apparentemente sul serio le accuse
antisemite, ma facendole proprie le trasferisce ipso facto su un altro
registro: quello di un’ironia diretta sulle prime contro di sé,
ma, in realtà, indirizzata soprattutto contro gli altri. Simili
osservazioni fanno capire perché vi sia un’abissale differenza
tra le barzellette degli ebrei e quelle sugli ebrei. Le storielle
ebraiche hanno perciò innanzitutto bisogno del loro pubblico che
sa che a raccontarle è «uno dei loro».
Senza dubbio sarebbe eccessivo negare a considerazioni come quelle
appena esposte una loro validità, ma sarebbe fuorviante anche ritenerle
un passe-partout capace di dare una descrizione di tutti gli
anfratti dell’animo ebraico. È ben vero che qualcuno ha voluto,
arrampicandosi sugli specchi, rintracciare segni consistenti
di umorismo ebraico fin nella Bibbia e, a fortiori, nel Talmud; ma
alla fine quei tentativi hanno reso evidente che questa
dimensione costituisce un’eccezione e non certo una regola. Di contro non
sarebbe affatto difficile, iniziando dalle corrucciate osservazioni
del Qohelet (2,2; 7,3.6), comporre
un ampio elenco di ammonimenti giudaici che invitano a ridere solo moderatamente.
Non a caso, secondo un detto tradizionale, il «poco riso» è
una delle molteplici condizioni giudicate indispensabili per acquisire
la Torà (cfr. Pirqè Avot, VI,5).
Piuttosto che cercare il «filo rosso» dell’umorismo
ebraico là dove esso non c’è, è meglio limitarsi
a prendere atto del dato di fondo che nella letteratura talmudica sono
state elaborate delle procedure che costituiscono effettivamente uno dei
riferimenti indispensabili per comprendere quello che sarebbe diventato
l’umorismo ebraico. In questo novero rientra, ad esempio, il ragionamento
sottile mosso da una serie di domande e risposte destinate a sfociare
a loro volta in altre domande. Anzi, alcune di queste acute disquisizioni
riproposte fuori dal loro contesto originario, sono sembrate,
loro malgrado, direttamente umoristiche. Già Heine, riferendosi
a un’accanita disputa tra le scuole rabbiniche di Hillel e
Shammaj posta all’inizio del trattato mishnico Bezà
(«uovo») (intitolato più propriamente anche Jom tov
«giorno festivo»), ironeggiava a proposito dell’uovo
così sfortunato da essere depositato proprio in un giorno
di festa, creando in tal modo un mucchio di (pseudo)problemi sul fatto
se fosse lecito cibarsene. Discussione, ben s’intende, all’origine serissima
e addirittura in grado di aprire prospettive assai significative rispetto
al ruolo riservato all’intenzionalità nell’azione umana, eppure
involontariamente comica una volta sradicata dal suo
contesto primitivo e dal suo pubblico. Anche percorrendo un altro
genere letterario tipicamente rabbinico, quello degli aneddoti, dei
racconti, delle parabole spesso paradossali e fantasiosamente irrealistiche,
più volte ci si misura con una specie di «umorismo criptico»
in cui, non di rado, l’esempio portato come modello da
seguire, visto in un altro contesto, appare comico o quanto meno eccessivo.
In quest’ultimo ambito entra di diritto il caso di quel non ebreo
portato a modello di come si debba onorare la propria madre; egli infatti,
quando fu pubblicamente percosso con una scarpa in faccia, senza motivo,
dalla sua impetuosa genitrice, non solo non protestò, ma addirittura
si curvò per raccogliere la calzatura che, nella foga,
era scappata di mano a sua mamma (j. Peà, 15c). L’assoluta
cedevolezza del figlio sembra imparentarsi con la storiella - incredibilmente
scambiata per vera da Freud - in cui si parla di alcuni
ebrei berlinesi che, a metà degli anni Trenta, inscenarono una manifestazione
sotto le finestre di Hitler innalzando dei sarcastici cartelli con
su scritto: «Buttateci fuori». Nel Talmud il comportamento
del pio non ebreo non è però affatto giudicato in modo ironico,
al contrario esso è presentato come un positivo modello
da seguire.
Con tutto ciò, la letteratura rabbinica resta davvero
una delle condizioni basilari che consentirono all’umorismo ebraico
di diventare, in un determinato momento storico e in specifiche
aree geografiche, una cifra capace di evidenziare il volto di un
intero mondo. Per comprendere ciò occorre pensare soprattutto
a una dimensione fondamentale del giudaismo rabbinico (di cui il
Talmud
è il massimo monumento), quella della Torà orale.
Per quanto sia invalso l’uso di chiamare gli ebrei il «popolo
del Libro», in realtà la scrittura non è la sola,
né per certi aspetti la più importante, tra tutte le facce
della cultura ebraica. Infatti per comprendere il giudaismo rabbinico bisogna
essere disposti ad attribuire al processo di trasmissione, discussione
e interpretazione della parola il ruolo di componente organica della
stessa rivelazione. Additare la centralità della Torà scritta
(cioè del Pentateuco) come fondamento della vita religiosa
d’Israele non è sufficiente per qualificare lo specifico di questo
tipo di ebraismo. Per il giudaismo rabbinico, infatti la Torà non
è solo «rotolo», è anche un «simbolo»
della totalità del proprio «sistema religioso»; tutti
i punti fondamentali della vita e della storia d’Israele giungono infatti
a piena espressione attraverso questo termine.
Il tramandare la parola rivelata di generazione in generazione
non costituisce un puro trasferimento di un testo immutabile, rappresenta
piuttosto la scelta di collegarlo saldamente alla sua interpretazione e
alla sua attualizzazione. Ecco dunque che, accanto alla Torà scritta
sorge quella orale, la quale si presenta innanzitutto come la prima indispensabile
interpretazione della Legge scritta. Tuttavia neppure questa precisazione
è sufficiente a stabilire lo specifico del giudaismo rabbinico.
Questo particolare tipo di ebraismo, diventato la forma di gran lunga
prevalente nei secoli della nostra era, consiste infatti nell’elaborazione
di un «sistema religioso» in cui sia la Torà scritta
sia quella orale sono viste come due parti integranti e inseparabili
della stessa rivelazione. In definitiva la Torà orale è
la capacità di far sì che il Sinai (simbolo «puntiforme»
della rivelazione della Torà scritta) possa diventare sempre un
«oggi».
Per comprendere meglio come ciò costituisca un antefatto
al mondo descritto dalle storielle ebraiche bisogna tenere conto
di altri tratti caratteristici: prima di tutto, solo con grande
difficoltà la Torà orale venne infine codificata in
raccolte scritte (a lungo prevalse infatti la convinzione secondo cui
quanto è detto va ripetuto e non già scritto); in secondo
luogo, si è creduto a lungo che Dio avesse stipulato la sua alleanza
con il popolo d’Israele specificatamente in base alla Torà
orale e non già a quella scritta (la quale sarebbe diventata propria
anche dei cristiani); in terzo luogo, la dimensione dell’oralità
interpretante costituisce l’orizzonte in cui la novità si
presenta come un modo per restare fedeli all’origine. «Anche
ciò che un discepolo esperto dirà di fronte al suo
maestro è già stato detto a Mosè sul Sinai»
(j. Peà, 2,4); questa frase, all’apparenza statica, esprime invece
un grande dinamismo: l’allievo inventa qualcosa, questa novità però
non segna uno iato, bensì uno sviluppo fedele di quanto c’è
potenzialmente fin dal principio. Per tutte queste caratteristiche la Torà
orale è il massimo luogo di definizione del «sé ebraico»
che, raccontandosi, si tramanda di generazione in generazione. Il flusso
dell’oralità consente a un momento sorgivo e irripetibile di prolungarsi
nel tempo.
Quando si stabilisce correttamente la propria identità non
è possibile non confrontarsi con gli «altri». Nelle
pagine bibliche e talmudiche la presenza dei non ebrei è una costante
significativa. Analogamente ben attestata è l’esistenza di un confronto,
spesso problematico, con gli «altri». Riferendosi a questo
contesto il giudaismo rabbinico si chiedeva perché quella vocazione
particolare, di cui la Torà è il massimo emblema, sia stata
rivolta proprio a Israele - che già il Deuteronomio
(7,7) definiva il più piccolo tutti i popoli - e non
alle genti. La Torà orale risponde a tale quesito sostenendo che
precedentemente Dio aveva in effetti offerto la sua Torà
a molti altri e più importanti popoli, essi però avevano
tutti posto delle pesanti condizioni per accettazione di essa; da ultimo
il Signore si rivolse a questa minuscola popolazione la quale, non
avendo niente da perdere, disse: «Tutto quello che il Signore
ha detto faremo ed ascolteremo» (Es
24,7) (cfr. Sifrè al Deuteronomio, 343). Nell’Europa orientale
in ambiente chassidico questa storia, originatasi per giustificare il proprio
«sé» ebraico, divenne poi un modo per esprimere
un’intima contesa con un Dio inteso in modo molto familiare. La storia
afferma infatti che un ebreo si rivolse a Dio pressappoco in questi
termini: «Non ti ricordi Signore quando sul Sinai ti
comportavi come un mercante che tentava di vendere la sua partita di mele
marce? Nessuno le voleva fino a quando venne Israele che ebbe compassione
di te; ora perciò Dio non dimenticarti del tuo popolo e non
lasciarlo andare in rovina». Una volta introdotta la metafora
mercantile, essa però può venire sviluppata in modo
ben più autoironico di quanto non avvenga in questa storia chassidica.
Infatti, secondo un’arguta storiella, il Signore, dopo averla offerta vanamente
a molti altri, giunse infine a offrire la Torà al popolo
ebraico, sentendosi rispondere: «Quanto costa ?» - «Nulla»
- «Allora dammene due!» (appunto la Torà scritta e quella
orale).
Questi tre passaggi che vanno dal racconto esegetico (midrash) fino
alla storiella simboleggiano un itinerario al termine del quale si
può avanzare la non spericolata ipotesi stando alla quale
l’umorismo ebraico, al suo apice, costituì una vera e propria
forma secolarizzata di Torà orale. Una citatissima sentenza
chassidica afferma: «Tutte le gioie vengono dal paradiso, anche lo
scherzo (Witz) se è detto con vera gioia»; analogamente
si potrebbe dire che, alla lunga, anche l’umorismo ebraico deriva dal Sinai
dove venne donata l’una e l’altra Torà. Questa tesi è difendibile,
oltre che facendo riferimento ad analogie formali, anche appellandosi
a prospettive contenutistiche e storiche. Formalmente sia la Torà
orale sia l’umorismo ebraico vivono in quanto sono raccontati, interpretati,
ampliati e attualizzati, mentre entrambi perdono consistenza
non appena sono semplicemente codificati. La polarità esistente
tra punto originario e ripetizione innovativa, evidenziatasi nel confronto
tra Sinai e accademie rabbiniche che elaboravano la Torà orale,
trova una specie di riscontro nell’ambito dell’umorismo nel confronto
tra la realtà «puntiforme» del motto di spirito
- che è una specie di versione profana dell’improvviso, antico
riversarsi dello Spirito sul profeta (qui l’italiano resta felicemente
ambiguo) - e il tramandarsi delle storielle.
Queste analogie prese in se stesse potrebbero sembrare, non a torto,
forzose e stiracchiate, tuttavia, oltre ad esse, ci si può riferire
a quello che, in effetti, è l’elemento chiave dell’intera ipotesi:
il ruolo svolto da entrambe le componenti nella «definizione del
sé ebraico». La Torà orale fu per lunghi secoli
il cuore della identità ebraica, in essa i comportamenti e i racconti,
i modi di pensare e di agire trovavano la loro espressione più
piena; lì l’ebreo si sentiva veramente tale, lì stabiliva
il confine che divideva la propria identità da quella degli altri.
L’umorismo ebraico trova la sua materia prima proprio riferendosi
a quel mondo; se si togliessero le sinagoghe e le scuole
talmudiche, le feste e le regole alimentari, i matrimoni e le circoncisioni
e via dicendo si eliminerebbe la quasi totalità delle storielle.
Inoltre non è eccessivo sostenere che, in un certo periodo, al Witz
ebraico è stato assegnato il compito sociale e culturale di
esprimere in modo ironico, ma preciso la distinzione tra «sé»
e gli «altri».
Non basta dire che l’umorismo è l’abilità di
saper ridere di se stessi, qualora non si aggiunga subito che in
ciò va compresa la capacità di fare altrettanto anche nei
confronti della propria tradizione religiosa. Si dirà che le barzellette
sull’aldilà, il papa, i vescovi e i preti sono all’ordine
del giorno anche in ambito cattolico; ciò svolge prima di tutto
la funzione di definizione di un ambito interno, tanto è vero che,
non di rado, si ricorre ad esse o per difendersi in modo ironico
e, quindi legittimato, dalla pressione gerarchica (in questo senso
le barzellette sono l’arguta versione pubblica delle chiacchiere di corridoio)
o per demitizzare visioni ultraterrene ormai impossibili da
assumere seriamente (cosa resterebbe della pletora di barzellette sull’aldilà
se si togliesse la funzione di guardiano del Paradiso attribuita
a S. Pietro?). Di certo si potrebbe ricavare più di un’analogia
interessante nel paragonare le modalità in cui le storielle nascono
all’interno delle varie culture religiose; probabilmente da quest’indagine
deriverebbe una costante: quella di legittimare il racconto interno e di
bollare quello esterno (anche le barzellette dei preti sono diverse da
quelli sui preti, specie se raccontate da anticlericali). Tuttavia l’epopea
delle storielle ebraiche è più corale di quelle presenti
nelle barzellette clericali. È vero che nell’umorismo ebraico i
rabbini sono largamente rappresentati, ma non sono certo i soli:
gli autentici protagonisti sono tutti coloro che definiscono l’ambito
di vita collettivo ebraico a cominciare da Dio e dal suo patto con il popolo
ebraico per giungere fino alla jidische mame (il cui atteggiamento preoccupato
e iperpremuroso rappresenta una specie di versione secolarizzata di un
noto passo biblico: «Ascolta figlio mio... non disprezzare
la torà [insegnamento] di tua madre» Pr
1,8). Se Dio è protagonista di tante storielle ebraiche,
lo è solo perché Egli si è legato al suo popolo
divenendo in tal modo, se così si potesse dire, il massimo referente
dell’identità ebraica. Il cuore delle storielle ebraiche resta
sempre la definizione del «sé», atto che può
avvenire solo se, direttamente o indirettamente, ci si confronta con gli
«altri».
Proprio queste ultime osservazioni fanno comprendere una prospettiva
di capitale importanza; perché sorgesse l’epopea dell’umorismo
ebraico occorrevano almeno tre condizioni: primo, che ci fosse
un modo di vita ebraico dotato di dimensioni sociali sufficientemente ampie;
secondo, che esso fosse in correlazione stretta e quotidiana con un ambiente
non ebraico di cui si conoscevano gli stili di vita e che
sovente, ma non necessariamente, si presentasse ostile nei confronti degli
ebrei; terzo, che al suo interno il mondo ebraico fosse variegato e ricco
di contrasti dovuti anche al fatto che alcune componenti ebraiche avevano
introiettato in se stesse delle convinzioni, dei modi di agire e di comportarsi
propri dell’ambiente non ebraico circostante. Così ad esempio, la
famosa storiella del piissimo ebreo che, dopo aver chiamato in punto
di morte il prete per farsi battezzare, risponde alla scandalizzata
perplessità della moglie affermando: «È meglio che
muoia uno dei loro che uno dei nostri», presuppone, per esser colta
in tutto il suo spessore, oltre all’esistenza di un clima di frizione tra
le due comunità religiose, anche la diffusione di spinte assimilatorie
in virtù delle quali un numero crescente di ebrei si faceva cristiano
proprio per cercare di diventare in tutto e per tutto «uno
dei loro».
Naturalmente le tre condizioni appena indicate non vogliono presentarsi
come base esclusiva dell’esistenza di ogni forma di storiella ebraica,
pretendono però di indicare i presupposti grazie ai
quali l’umorismo ebraico ha potuto assumere la dimensione dell’epopea,
diventando specchio privilegiato di un’intera civiltà.
Franz Kafka una volta qualificò la psicoanalisi
come il commento di Rashi della sua generazione; sulla scorta di
questa suggestione non sarebbe sbagliato affermare che il Witz costituì
una specie di Torà orale di un intero, vasto ambiente culturale
e sociale. Quale? Il mondo ebraico dell’Est europeo tra il XIX e
l’inizio del XX secolo (il nome dell’iniziatore di questo filone è
di solito, non a caso, individuato in Herschel da Ostropol
morto ai primi del XIX sec.) entro il quale convivevano (e litigavano)
ortodossi e atei, sionisti e antiosionisti, marxisti e chassidim,
talmudisti e letterati, pochi ricchi e molti poveri. Rispetto all’esterno
quel mondo ebraico conosceva dal suo canto sia convivenze secolari sia
le vampate devastanti dei pogrom. La terra di elezione dell’umorismo
ebraico è dunque la Ostjüddishkeit; a partire da essa si
sono poi avute varie diramazioni ricalcate sulle ondate migratorie
di ebrei che si muovevano verso ovest. Di questo flusso si
trovano tracce a Parigi e a Londra; tuttavia la sua vita è
proseguita soprattutto al di là dell’oceano dove si è potuto
ricostruire un ambiente ebraico sufficientemente ampio, vario e contraddittorio,
il quale, tra l’altro, ha potuto abbondantemente attingere anche al pensiero
di Sigmund Freud (e ai suoi discepoli ortododdi ed eretici): il Rashi del
XX secolo. «Abbiamo sofferto tanto» dice un ebreo all’amico
«pogrom, esilio, stermini… però, vedi come li abbiamo fregati!».
«E come?», chiede l’amico. «Non vedi? Con la psicoanalisi».
Anche l’ambito americano però è, per questo aspetto, già
tramontato e non basta certo un Woody Allen sempre stanco e invecchiato
a far credere che quel tipo di umorismo possa avere un destino diverso
dal diventare letteratura o, al più, spettacolo.
L’unico punto di riferimento rispetto al quale l’umorismo
ebraico potrà continuare a vivere come una specie di «Torà
orale secolarizzata» è, sia per chi vi vive sia
per chi risiede lontano, la società israeliana. Le contraddizioni
interne, le ostilità e le forme di attrazione che provengono
dall’esterno, al giorno d’oggi, culminano nel confronto tra l’unica società
al mondo a maggioranza ebraica, appunto quella israeliana, e una diaspora
ebraica tuttora presente in moltissimi paesi. Gli spazi per un corposa
autoironia si danno solo qui, proprio dove il confronto è
più aspro. Anche in ambito israeliano però il futuro dell’umorismo
ebraico non appare particolarmente roseo, o, in ogni caso, subirà
una profonda ridefinizione venendo declinato in maniera sempre più
nazionale. Il superamento di fratture frontali interne - si pensi,
ad esempio, a quello esistente tra ortodossi e laici - esigerebbe
la presenza di una lingua comune, tuttavia pare assai difficile credere
che essa possa essere quella del Witz. A quel che è dato di
vedere la contrapposizione tra i due schieramenti sembra infatti farsi
di giorno in giorno più radicale, cosicché da un lato pare
esserci spazio soprattutto per un’ortodossia seriosamente fondamentalistica,
mentre dall’altro sembra esserci una laicità che trae
i propri titoli di credito soprattutto dall’essere contro i religiosi.
In questo contesto non è facile saper ridere di se stessi
e della propria tradizione religiosa, anche perché, come dimostra
la storiella che segue, si è ormai in una situazione
in cui la memoria della propria tradizione - presupposto fondamentale
a ogni tipo di «Torà orale» (compresa quella umoristica)
- pare prossima ad estinguersi. Occorre premettere che per comprendere
la storiella bisogna tener presenti due fatti: primo, che Israel è
un nome proprio alquanto diffuso; secondo, che lo Shema‘ Israel
(«Ascolta, Israele») (cfr Dt 6,4)
è il celeberrimo inizio della cosiddetta «professione di fede
ebraica». Due israeliani si trovano all’improvviso di fronte a un
edificio in fiamme, ovunque si alzano rumori e grida. Uno dei due
casuali spettatori, preso dallo sbigottimento, esclama : «Shema‘
Israel» e l’altro gli risponde: «Senti un po’! Prima
di tutto non mi chiamo affatto Israel e in secondo luogo non ho proprio
nulla da ascoltare da te».