APPROFONDIMENTI CULTURALI -XXI   - (ANNO XIV, N.2)

PIERO STEFANI

RISO ED EBRAISMO

La battuta, il motto di spirito, la storiella, la barzelletta sono parole che  si riferiscono a un ambito più variegato di quanto possa sembrare a colpo d’occhio. I primi due termini indicano una realtà  sorgiva,  apparsa improvvisamente in un contesto preciso, solo entro il quale mantengono  la  loro autentica vivezza; una battuta può anche essere riferita, anzi alcune di esse  sono diventate dei veri e propri topoi; eppure la loro ripetizione  comporta sempre un allontanamento dal «fuoco delle origini» e dall’inventiva che sa cogliere un accostamento inatteso, un paragone imprevisto, un doppio senso non colto dai più  e così via. Non a caso, quando si racconta una battuta occorre, di norma, trasmettere  qualcosa  delle circostanze in cui è sorta: in quel luogo, in quel tempo, quella determinata persona ha detto così e così.  Al contrario, la storiella e la barzelletta sono congegnate proprio per essere ripetute e per instaurare una catena aperta in cui  si continua a passare  dalla bocca dell’uno agli orecchi dell’altro. In questo transitare  esse godono  di tanta maggior salute quanto più, pur  evitando  il rischio dell’espansione pletorica, sono parzialmente rinnovate e arricchite di varianti. La ripetizione meccanica  di una storiella la consegna a una monotonia  captata sotterraneamente anche da chi la sta ascoltando per la prima volta.
Motto di spirito e storiella, pur essendo tendenzialmente orientati in direzioni opposte, si riferiscono però pur sempre a un ambito comune: l’oralità; entrambi infatti sono consegnati a una specie di rigor mortis quando divengono materiale scritto. La differenza che passa tra i libri che raccolgono, ordinandoli per genere e specie, battute, motti di spirito, storielle o barzellette  e la dimensione orale in cui  tutti questi tipi di umorismo sono nati, richiama quella che distingue le bacheche dell’entomologo da un libero e lieve  svolazzare di farfalle. A vantaggio dei testi scritti vi è solo il fatto che, nei casi migliori, i loro contenuti possono diventare tracce da riconsegnare a chi li sa riraccontare;  di contro solo un essere divino potrebbe, battendo le mani, far spiccare il volo ai coleotteri   posti sotto vetro nei musei di scienze naturali.
La sala di rianimazione delle storielle è lo spettacolo in cui un bravo attore le rivitalizza rinarrandole; tuttavia la prognosi resta riservata in quanto rimane lo scompenso strutturale in cui uno solo racconta, mentre tutti gli altri stanno semplicemente ad ascoltare. La vecchia battuta del cabarettista che risponde «orecchio» allo spettatore che, non riuscendo bene a captare un doppio senso un po’ spinto, gli aveva gridato «voce», sintetizza bene questa invalicabile diversificazione di ruoli. La situazione artificiale propria di uno spettacolo impedisce la coralità degli interventi che è il succo stesso del raccontare in modo amicale barzellette, cioè di una situazione in cui ognuno dei protagonisti vuole aggiungere la sua: tra uno spettacolo basato su storielle e un gruppo di amici che si dedica alla stessa attività vi è la  medesima differenza  che passa tra un regime monopolistico e uno basato sulla libera concorrenza.
 Quanto più si moltiplicano i libri, gli spettacoli, i film imperniati sulle storielle e  sui motti di spirito ebraici tanto più si diventa consapevoli  dell’esistenza di una distanza incolmabile che ci separa dal  contesto in cui  è rigogliosamente germinato  l’umorismo ebraico. Senza dubbio, prima che sorgesse questa  specie di «moda  culturale», fuori dalla cerchia  degli «addetti ai lavori» si ignorava semplicemente  la realtà del Witz e dell’umorismo ebraici. L’inattesa scoperta di questo mondo ha fatto sì che molti, invece di avvertire un estraneamento, credessero di conoscere  davvero un ambiente. In effetti per  rendersi conto di quest’ultimo non basta  leggere libri e assistere a spettacoli i cui  protagonisti si chiamano  Moischele, Sarele,  Davidele e in cui  molto spazio è riservato a qualche implacabilmente amorosa jidische mame. Invero un certo progresso potrebbe derivare  anche  dal porsi questa semplice domanda: perché in quelle storielle non ci si imbatte mai in un Ravenna, in un Ottolenghi, in un Morpurgo, in un Di Nepi  o in un qualsiasi altro personaggio contraddistinto da un tipico cognome di ebrei italiani?  A ben pensarci  il massimo concesso è infatti di incontrare qualche  ebreo triestino di confine. Tuttavia anche questo rilievo, per quanto pertinente, non è comunque sufficiente in quanto, per affrontare in modo convincente  simili temi, occorre impostare un discorso  dal respiro  addirittura plurisecolare.
L’opinione secondo cui l’umorismo sia una cifra propria dell’animo ebraico si sposa di solito con la convinzione stando alla quale la sua essenza è ben espressa dalla sentenza  proverbiale: «si ride per non piangere».  Tutto ciò risulta con particolare evidenza quando ci si deve confrontare con l’antisemitismo; infatti, in tal caso, l’umorismo esprimerebbe essenzialmente «la tecnica psicodinamica con la quale il popolo  ebraico» per quasi venti secoli «affrontò e sopportò i tremendi colpi inflittigli dall’antisemitismo» . Davanti all’antisemita l’ebreo è a priori  un colpevole, ogni tentativo di difendersi  con argomenti  ragionevoli non fa, quindi, che aggravare  la sua situazione; in simili casi si è  presi entro una spirale senza scampo. L’unica risposta  sta allora nel  trasferire la replica su un  altro piano, quello appunto del  Witz  in cui si comprende che affrontare l’antisemita sul suo stesso piano equivale già a un’implicita ammissione di colpa. L’umorismo ebraico  prende quindi apparentemente sul serio le accuse antisemite, ma facendole proprie le trasferisce ipso facto su un altro registro: quello di un’ironia  diretta sulle prime contro di sé, ma, in realtà, indirizzata soprattutto contro gli altri. Simili osservazioni  fanno capire perché vi sia un’abissale differenza tra le barzellette degli ebrei  e  quelle sugli ebrei. Le storielle ebraiche hanno perciò innanzitutto bisogno del loro pubblico che  sa che a raccontarle è «uno dei loro».
Senza dubbio sarebbe eccessivo negare a considerazioni come quelle appena esposte una loro validità, ma sarebbe fuorviante anche ritenerle un  passe-partout capace di  dare una descrizione di tutti gli anfratti dell’animo ebraico. È ben vero che qualcuno ha voluto, arrampicandosi sugli specchi,  rintracciare  segni consistenti di umorismo ebraico fin nella Bibbia e, a fortiori,  nel Talmud; ma alla fine  quei tentativi hanno reso evidente  che  questa dimensione costituisce un’eccezione e non certo una regola. Di contro non sarebbe affatto difficile,  iniziando dalle corrucciate osservazioni del Qohelet  (2,2; 7,3.6), comporre un ampio elenco di ammonimenti giudaici che invitano a ridere solo moderatamente. Non a caso, secondo un detto tradizionale, il «poco riso» è una delle molteplici condizioni giudicate indispensabili per acquisire la Torà (cfr. Pirqè Avot, VI,5).
Piuttosto che cercare il «filo rosso» dell’umorismo ebraico là dove esso non c’è, è  meglio limitarsi a prendere atto del dato di fondo che nella letteratura talmudica sono state elaborate delle procedure che costituiscono effettivamente uno dei riferimenti indispensabili per comprendere quello che sarebbe  diventato l’umorismo ebraico. In questo novero rientra, ad esempio, il ragionamento sottile mosso da una serie di domande e risposte  destinate a sfociare a loro volta in altre domande. Anzi, alcune di queste acute disquisizioni riproposte  fuori dal loro contesto originario,  sono  sembrate, loro malgrado, direttamente umoristiche. Già Heine, riferendosi a un’accanita disputa tra le scuole rabbiniche  di Hillel e  Shammaj  posta all’inizio del trattato  mishnico  Bezà («uovo») (intitolato più propriamente anche Jom tov «giorno festivo»),  ironeggiava  a proposito dell’uovo  così sfortunato da essere depositato  proprio in un giorno di festa, creando in tal modo un mucchio di (pseudo)problemi sul fatto se fosse lecito cibarsene. Discussione, ben s’intende, all’origine serissima e addirittura in grado di aprire prospettive assai significative rispetto al ruolo riservato all’intenzionalità nell’azione umana, eppure involontariamente  comica  una  volta sradicata dal suo contesto primitivo e dal suo  pubblico. Anche percorrendo un altro genere letterario tipicamente rabbinico,  quello degli aneddoti, dei racconti, delle parabole  spesso paradossali e fantasiosamente irrealistiche, più volte ci si misura con una specie di «umorismo criptico» in cui, non di rado,  l’esempio portato  come  modello da seguire, visto in un altro contesto, appare comico o quanto meno eccessivo. In quest’ultimo  ambito entra di diritto il caso di quel non ebreo portato a modello di come si debba onorare la propria madre; egli infatti, quando fu pubblicamente percosso con una scarpa in faccia, senza motivo, dalla sua impetuosa genitrice, non solo non protestò, ma addirittura  si curvò per raccogliere  la calzatura che, nella foga,  era scappata di mano a sua mamma (j. Peà, 15c).  L’assoluta cedevolezza del figlio sembra imparentarsi con la storiella  - incredibilmente scambiata per vera da Freud   - in cui  si parla di alcuni  ebrei berlinesi che, a metà degli anni Trenta, inscenarono una manifestazione sotto le finestre di Hitler innalzando  dei sarcastici cartelli con su scritto: «Buttateci fuori». Nel Talmud il comportamento del pio non ebreo non è però affatto giudicato in modo ironico, al contrario  esso è presentato  come un positivo modello da seguire.
Con tutto ciò, la letteratura rabbinica  resta davvero una delle condizioni basilari  che consentirono all’umorismo ebraico  di diventare, in un determinato momento  storico e in specifiche  aree  geografiche, una cifra capace di evidenziare il volto di un intero mondo.  Per comprendere ciò occorre pensare  soprattutto a una dimensione fondamentale del giudaismo rabbinico (di cui  il Talmud è il massimo monumento),  quella della Torà orale.  Per quanto sia invalso l’uso di chiamare  gli ebrei il «popolo del Libro», in realtà  la scrittura non è la sola, né per certi aspetti la più importante, tra tutte le facce della cultura ebraica. Infatti per comprendere il giudaismo rabbinico bisogna essere disposti ad attribuire al processo di trasmissione, discussione e interpretazione della parola il ruolo di componente  organica della stessa rivelazione. Additare la centralità della Torà scritta (cioè del Pentateuco) come fondamento della  vita religiosa d’Israele non è sufficiente per qualificare lo specifico di questo tipo di ebraismo. Per il giudaismo rabbinico, infatti la Torà non è solo «rotolo», è anche un «simbolo» della totalità del proprio «sistema religioso»; tutti i punti fondamentali della vita e della storia d’Israele giungono infatti a piena espressione attraverso questo termine.
Il tramandare la  parola rivelata di generazione in generazione non costituisce un puro trasferimento di un testo immutabile, rappresenta piuttosto la scelta di collegarlo saldamente alla sua interpretazione e alla sua attualizzazione. Ecco dunque che, accanto alla Torà scritta sorge quella orale, la quale si presenta innanzitutto come la prima indispensabile interpretazione della Legge scritta. Tuttavia neppure questa precisazione è sufficiente a stabilire lo specifico del giudaismo rabbinico. Questo particolare tipo di ebraismo, diventato  la forma di gran lunga prevalente nei secoli della nostra era, consiste infatti nell’elaborazione di un «sistema religioso» in cui sia  la Torà scritta sia  quella orale sono viste come due parti integranti e inseparabili della stessa rivelazione. In definitiva la Torà orale è  la capacità di far sì che il Sinai (simbolo «puntiforme» della rivelazione della Torà scritta) possa diventare sempre un «oggi».
Per comprendere meglio come ciò costituisca un antefatto al mondo descritto dalle storielle ebraiche  bisogna tenere conto di altri tratti  caratteristici:  prima di tutto, solo con grande difficoltà  la Torà orale venne infine codificata in raccolte scritte (a lungo prevalse infatti la convinzione secondo cui  quanto è detto va ripetuto e non già scritto); in secondo luogo, si è creduto a lungo che Dio avesse stipulato la sua alleanza con il popolo d’Israele  specificatamente in base alla Torà orale e non già a quella scritta (la quale sarebbe diventata propria anche dei cristiani); in terzo luogo, la dimensione dell’oralità interpretante costituisce  l’orizzonte in cui la novità si presenta come un modo per restare fedeli all’origine.  «Anche ciò che un discepolo esperto  dirà di fronte al suo maestro è già stato detto a Mosè sul Sinai» (j. Peà, 2,4); questa frase, all’apparenza statica, esprime invece un grande dinamismo: l’allievo inventa qualcosa, questa novità però non segna uno iato, bensì uno sviluppo fedele di quanto c’è potenzialmente fin dal principio. Per tutte queste caratteristiche la Torà orale è il massimo luogo di definizione del «sé ebraico» che, raccontandosi, si tramanda di generazione in generazione. Il flusso dell’oralità consente a un momento sorgivo e irripetibile di prolungarsi nel tempo.
Quando si stabilisce correttamente la propria identità non è possibile non confrontarsi con gli «altri». Nelle pagine bibliche e talmudiche la presenza dei non ebrei è una costante significativa. Analogamente ben attestata è l’esistenza di un confronto, spesso problematico, con gli «altri». Riferendosi a questo contesto il giudaismo rabbinico si chiedeva perché quella vocazione particolare, di cui la Torà è il massimo emblema, sia stata rivolta proprio a Israele - che già il Deuteronomio  (7,7) definiva il più piccolo tutti i popoli -  e non alle genti. La Torà orale risponde a tale quesito sostenendo che  precedentemente Dio  aveva  in effetti offerto la sua Torà a molti altri e più importanti popoli, essi  però avevano tutti posto delle pesanti condizioni per accettazione di essa; da ultimo il Signore si rivolse a questa  minuscola popolazione la quale, non avendo niente  da perdere, disse: «Tutto quello che il Signore ha detto faremo ed ascolteremo» (Es 24,7) (cfr. Sifrè al Deuteronomio, 343). Nell’Europa orientale in ambiente chassidico questa storia, originatasi per giustificare il proprio «sé» ebraico, divenne  poi un  modo per esprimere un’intima contesa con un Dio inteso in modo  molto familiare. La storia afferma infatti che  un ebreo si rivolse a Dio pressappoco in questi termini: «Non ti ricordi  Signore quando sul Sinai  ti comportavi come un mercante che tentava di vendere la sua partita di mele marce? Nessuno le voleva fino a quando venne Israele che ebbe compassione di te; ora  perciò Dio non dimenticarti del tuo popolo e non lasciarlo andare in rovina». Una volta introdotta la metafora  mercantile, essa però può venire sviluppata in modo  ben più autoironico di quanto non avvenga in questa storia chassidica. Infatti, secondo un’arguta storiella, il Signore, dopo averla offerta vanamente a molti altri,  giunse infine a  offrire la Torà al popolo ebraico, sentendosi rispondere: «Quanto costa ?» - «Nulla»  - «Allora dammene due!» (appunto la Torà scritta e quella orale).
Questi tre passaggi che vanno dal racconto esegetico (midrash) fino alla storiella simboleggiano un itinerario al termine  del quale si può avanzare la non spericolata ipotesi  stando alla quale l’umorismo ebraico, al suo apice, costituì una  vera e propria forma secolarizzata di Torà orale. Una citatissima sentenza chassidica afferma: «Tutte le gioie vengono dal paradiso, anche lo scherzo (Witz) se è detto con vera gioia»;  analogamente si potrebbe dire che, alla lunga, anche l’umorismo ebraico deriva dal Sinai dove venne donata l’una e l’altra Torà. Questa tesi è difendibile, oltre che facendo riferimento ad analogie formali, anche  appellandosi a prospettive contenutistiche e storiche. Formalmente sia la Torà orale sia l’umorismo ebraico vivono in quanto sono raccontati, interpretati, ampliati e attualizzati, mentre  entrambi perdono  consistenza non appena sono semplicemente codificati. La polarità esistente tra punto originario e ripetizione innovativa, evidenziatasi nel confronto tra Sinai e accademie  rabbiniche che elaboravano la Torà orale, trova  una specie di riscontro nell’ambito dell’umorismo nel confronto tra la realtà «puntiforme» del motto di spirito  - che è  una specie di versione profana dell’improvviso, antico riversarsi dello Spirito sul profeta  (qui l’italiano resta felicemente ambiguo) - e  il tramandarsi delle storielle.
Queste analogie prese in se stesse potrebbero sembrare, non a torto, forzose e stiracchiate, tuttavia, oltre ad esse, ci si può riferire a quello che, in effetti, è l’elemento chiave dell’intera ipotesi:  il ruolo svolto da entrambe le componenti nella «definizione del sé ebraico». La Torà orale  fu per lunghi secoli il cuore della identità ebraica, in essa i comportamenti e i racconti, i modi di pensare e di agire  trovavano la loro espressione più piena; lì l’ebreo si sentiva veramente tale, lì stabiliva il confine che divideva la propria identità da quella degli altri. L’umorismo ebraico trova la sua materia prima proprio  riferendosi a quel mondo;  se si togliessero le sinagoghe  e le scuole  talmudiche, le feste e le regole alimentari, i matrimoni e le circoncisioni  e via dicendo si eliminerebbe la quasi totalità delle storielle.  Inoltre non è eccessivo sostenere che, in un certo periodo, al Witz ebraico è stato assegnato il compito sociale e culturale di  esprimere in modo ironico, ma preciso la distinzione tra «sé» e gli «altri».
Non basta dire che  l’umorismo è l’abilità di saper ridere di se stessi, qualora non  si aggiunga subito che in ciò va compresa la capacità di fare altrettanto anche nei confronti della propria tradizione religiosa. Si dirà che le barzellette sull’aldilà, il papa, i vescovi  e i preti sono all’ordine del giorno anche in ambito cattolico; ciò svolge prima di tutto  la funzione di definizione di un ambito interno, tanto è vero che, non di rado, si ricorre ad esse o per difendersi in  modo ironico e, quindi legittimato, dalla pressione gerarchica (in questo senso  le barzellette sono l’arguta versione pubblica delle chiacchiere di corridoio) o per demitizzare  visioni  ultraterrene ormai impossibili da assumere seriamente (cosa resterebbe della pletora di barzellette sull’aldilà se si togliesse la  funzione di guardiano del Paradiso attribuita a S. Pietro?). Di certo si potrebbe ricavare più di un’analogia interessante nel paragonare le modalità in cui le storielle nascono all’interno delle varie culture religiose; probabilmente da quest’indagine deriverebbe una costante: quella di legittimare il racconto interno e di bollare quello esterno (anche le barzellette dei preti sono diverse da quelli sui preti, specie se raccontate da anticlericali). Tuttavia l’epopea delle storielle ebraiche è più corale di quelle presenti nelle barzellette clericali. È vero che nell’umorismo ebraico i rabbini sono largamente  rappresentati, ma non sono certo i soli: gli autentici protagonisti sono tutti coloro che  definiscono l’ambito di vita collettivo ebraico a cominciare da Dio e dal suo patto con il popolo ebraico per giungere fino alla jidische mame (il cui atteggiamento preoccupato e iperpremuroso rappresenta una specie di versione secolarizzata di un noto passo  biblico: «Ascolta figlio mio... non disprezzare la  torà [insegnamento] di tua madre» Pr 1,8). Se Dio è protagonista di tante storielle ebraiche, lo è solo perché Egli si è legato al suo popolo  divenendo in tal modo, se così si potesse dire, il massimo referente  dell’identità ebraica.  Il cuore delle storielle ebraiche resta sempre la definizione del «sé», atto che può avvenire solo se, direttamente o indirettamente, ci si confronta con gli «altri».
Proprio queste ultime osservazioni fanno comprendere una prospettiva di capitale importanza; perché sorgesse  l’epopea dell’umorismo ebraico  occorrevano  almeno tre condizioni: primo, che ci fosse  un modo di vita ebraico dotato di dimensioni sociali sufficientemente ampie; secondo, che esso fosse in correlazione stretta e quotidiana con un ambiente non ebraico di cui si conoscevano gli  stili  di vita e che  sovente, ma non necessariamente, si presentasse ostile nei confronti degli ebrei; terzo, che al suo interno il mondo ebraico fosse variegato e ricco di contrasti dovuti anche al fatto che alcune componenti ebraiche avevano introiettato in se stesse delle convinzioni, dei modi di agire e di comportarsi propri dell’ambiente non ebraico circostante. Così ad esempio, la famosa storiella del piissimo ebreo  che, dopo aver chiamato in punto di morte il prete per farsi battezzare, risponde alla  scandalizzata perplessità della moglie affermando: «È meglio che muoia uno dei loro che uno dei nostri», presuppone, per esser colta in tutto il suo spessore, oltre all’esistenza di un clima di frizione tra le due comunità religiose, anche la  diffusione di spinte assimilatorie in virtù delle quali un numero crescente di ebrei si faceva cristiano proprio per cercare  di diventare in tutto e per tutto «uno dei loro».
Naturalmente le tre condizioni appena indicate non vogliono presentarsi come base esclusiva dell’esistenza di ogni forma di storiella ebraica, pretendono  però di  indicare i presupposti grazie ai quali l’umorismo ebraico ha potuto assumere la dimensione dell’epopea,  diventando specchio  privilegiato di un’intera civiltà.
Franz Kafka  una volta qualificò la psicoanalisi  come il commento di Rashi della sua generazione;  sulla scorta di questa suggestione non sarebbe sbagliato affermare  che il Witz costituì una specie di Torà orale di un intero, vasto ambiente culturale e sociale. Quale? Il mondo ebraico dell’Est europeo  tra il XIX e l’inizio del XX secolo (il nome dell’iniziatore di questo filone è di solito,  non a caso, individuato  in Herschel da Ostropol morto ai primi del XIX sec.)  entro il quale convivevano (e litigavano)  ortodossi e atei, sionisti e antiosionisti, marxisti e chassidim,  talmudisti e letterati, pochi ricchi e molti poveri. Rispetto all’esterno quel mondo ebraico conosceva dal suo canto sia convivenze secolari sia le vampate devastanti dei pogrom. La terra di elezione dell’umorismo  ebraico è dunque la Ostjüddishkeit; a partire da essa si  sono poi avute varie diramazioni ricalcate sulle ondate migratorie  di ebrei che si muovevano verso ovest.  Di questo flusso si  trovano  tracce a Parigi e a Londra;  tuttavia la sua vita è proseguita soprattutto al di là dell’oceano dove si è potuto ricostruire un ambiente ebraico sufficientemente ampio, vario e contraddittorio, il quale, tra l’altro, ha potuto abbondantemente attingere anche al pensiero di Sigmund Freud (e ai suoi discepoli ortododdi ed eretici): il Rashi del XX secolo. «Abbiamo sofferto tanto» dice un ebreo all’amico «pogrom, esilio, stermini… però, vedi come li abbiamo fregati!». «E come?», chiede l’amico. «Non vedi? Con la psicoanalisi». Anche l’ambito americano però è, per questo aspetto, già tramontato e non basta certo un Woody Allen sempre stanco e invecchiato a far credere che quel tipo di umorismo possa avere un destino diverso dal diventare letteratura o, al più, spettacolo.
L’unico  punto di riferimento rispetto al quale l’umorismo ebraico potrà continuare a vivere come una specie di «Torà orale secolarizzata» è, sia per chi vi vive sia per chi risiede lontano, la società israeliana. Le contraddizioni interne, le ostilità  e le forme di attrazione che provengono dall’esterno, al giorno d’oggi, culminano nel confronto tra l’unica società al mondo a maggioranza ebraica, appunto quella israeliana, e una diaspora ebraica tuttora presente in moltissimi paesi. Gli spazi per un corposa autoironia  si danno solo qui, proprio dove il confronto è più aspro. Anche in ambito israeliano però il futuro dell’umorismo ebraico non appare particolarmente roseo, o, in ogni caso, subirà una profonda ridefinizione venendo declinato in maniera sempre più nazionale. Il superamento di fratture frontali  interne - si pensi, ad esempio, a quello esistente  tra ortodossi e laici - esigerebbe la presenza di una lingua comune, tuttavia pare assai difficile credere che essa  possa essere quella del Witz. A quel che è dato di vedere la contrapposizione tra i due schieramenti sembra infatti farsi di giorno in giorno più radicale, cosicché da un lato pare esserci spazio soprattutto per un’ortodossia seriosamente  fondamentalistica, mentre dall’altro  sembra esserci una laicità  che trae i propri titoli di credito soprattutto dall’essere contro  i religiosi. In questo contesto  non è facile saper ridere di se stessi e della propria tradizione religiosa, anche  perché, come dimostra la  storiella  che segue, si è ormai in una situazione in cui la memoria della propria tradizione  -  presupposto fondamentale a ogni tipo di  «Torà orale» (compresa quella umoristica) - pare prossima ad estinguersi. Occorre premettere che per comprendere la storiella bisogna tener presenti due fatti: primo, che Israel è un nome proprio  alquanto diffuso; secondo, che lo Shema‘ Israel  («Ascolta, Israele») (cfr Dt 6,4) è il celeberrimo inizio della cosiddetta «professione di fede ebraica». Due israeliani si trovano all’improvviso di fronte a un edificio in fiamme, ovunque si alzano rumori e grida. Uno dei due  casuali spettatori, preso dallo sbigottimento, esclama : «Shema‘ Israel»  e l’altro gli risponde: «Senti un po’! Prima di tutto non mi chiamo affatto Israel e in secondo luogo non ho proprio nulla da ascoltare da te».

Piero Stefani
(Articolo apparso su Servitium n.123/1999, «Ridere», pp. 247-258).



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