APPROFONDIMENTI CULTURALI  -  XX                                                                                                                                        (ANNO XIV. N. 1)

IL TEMPO NELL'ISLAM

Dopo una approfondita riflessione il Consiglio direttivo di Biblia ha deciso di dedicare il convegno internazionale che si svolgerà nell'ottobre del 2001 al tema: «La pace e la guerra  nella Bibbia e nel Corano». Intendiamo perciò tenere vivo I'interesse culturale per I'Islam.
A integrazione degli argomenti che saranno affrontati nel convegno di Brescia. presentiamo questo contributo tratto da un saggio più ampio scritto dal giovane e valido islamista Carlo Saccone, docente presso I'Istituto di Scienze Religiose di Trento.

LA CONCEZIONE CORANICA DELLA STORIA

Passando dalla concezione della vita umana a quella più ampia della storia, il Corano ci offre altri interessanti motivi di confronto. Preliminarmente occorre osservare che non si trova nel Corano una «storia del popolo di Dio» quale è dato trovare nei libri biblici. Qui Dio si manifesta nella e attraverso la storia di Israele: egli ama, soffre, s'adira e si rallegra con il suo popolo. La storia d'Israele è insieme storia di una teofania e di una cooperazione duratura tra un popolo e il suo Signore. Tutt'altro troviamo nel Corano. Innanzitutto 1'arco di tempo in cui viene trasmesso, circa ventidue anni (dal 610 al 632, anno della morte di Maometto), si riferisce a una comunità religiosa colta, «fotografata», allo stato nascente. Non troviamo dunque come nell'Antico Testamento la storia plurisecolare e ultramillenaria di un popolo, ma soltanto poche istantanee, brevi accenni o sintetiche allusioni ad alcuni momenti della vita di una comunità religiosa. Né il Corano peraltro si propone di fare la storia della prima comunità musulmana, essendo esso un testo in cui predominano altri registri: quello imperativo soprattutto. trattandosi di fatto di un lunghissimo monologo di Allah che impartisce le sue istruzioni, precetti e regolamenti al profeta Maometto. Le parti narrative non mancano. ma si riferiscono soprattutto a episodi biblici rapidamente sunteggiati (storie di Noè, di Mosè, di Abramo. di Gesù. ecc. ) e a popoli arabi preislamici castigati da Dio: tutte storie portate a mo' di esempio edificante o di monito per coloro che sono sordi al messaggio dei profeti 1. La storia della prima comunità musulmana s'è dovuto ricercarla altrove, soprattutto nel monumentale corpus degli hadîth (lett.: racconti / tradizioni) che ci tramandano i detti e i fatti di cui è protagonista Maometto.
Ma qual è il rapporto tra Allah e la storia umana? Ebbene. quel che emerge dalle scritture sacre all'islam è una concezione molto diversa da quella a struttura «cooperativa» vigente nella tradizione scritturale giudeo-cristiana. Allah non si limita a intervenire nelle faccende umane restando a fianco del suo popolo più o meno assiduamente. non si limita ad orientare il cammino di nazioni e individui bensì, si direbbe, Allah  fa e disfa letteralmente la storia e i destini umani, giorno per giorno se non addirittura attimo dopo attimo. C'è da dubitare persino, stando al Corano, che il concetto di storia - definendolo in senso lato come luogo in cui si sviluppa con qualche grado di autonomia 1'attività dello spirito umano - abbia senso. Per chiarire questa situazione bisogna rifarsi alla particolare concezione coranica della creazione. Nella tradizione biblica Iddio crea in sei giorni il mondo e le sue creature, le crea una volta per tutte, e poi il creato procede secondo le proprie leggi, autonomamente. Dio può certamente in qualsiasi momento sospendere queste leggi, intervenire nel creato «miracolosamente», ma questo conserva nondimeno una sua sostanziale autonomia. Anche nel Corano si parla di creazione: Allah crea in due giorni i cieli, in altri due la terra e in quattro tutto ciò che li popolano. Ma il punto interessante è un altro: Allah non cessa mai di creare. Nel Corano si leggono espressioni come queste: «Allah pone mano ogni giorno ad opera nuova»: oppure egli stesso si domanda retoricamente: «Ci siamo forse esauriti con la prima creazione?». La stessa resurrezione dei corpi è vista come una «nuova creazione». Da questi e altri spunti consimili, i teologi musulmani deriveranno una particolare teoria della creazione: Dio è impegnato incessantemente in una «creazione perpetua», giorno dopo giorno. istante dopo istante 2. Nella sua formulazione corrente, Dio creerebbe, distruggerebbe e ricreerebbe il mondo ad ogni istante. La sua continuità è una pura apparenza. una nostra illusione, esattamente come quella che ci è data dal rapidissimo scorrere dei fotogrammi di un filmato.
Le ragioni dello stabilirsi di una simile concezione della creazione sono complesse. né qui è possibile vederle nel dettaglio. Basterà ricordare che tutta la teologia islamica parte dal presupposto della incomprensibilità della libertà e dell'onnipotenza divine: supporre un mondo «autonomo», che procede automaticamente secondo le sue leggi, quand'anche stabilite all'inizio da Dio stesso, vorrebbe dire supporre che qualcosa può procedere nel tempo a prescindere da Dio, che qualcosa sfugge al controllo puntuale di Dio.
Le conseguenze di questa concezione della «creazione perpetua» sono varie e facilmente intuibili. Non v'è posto per 1'idea di causalità, sia in senso fisico che in senso storico. Dio è dietro ogni evento, le cause che 1'uomo crede di individuare e descrivere sono pura apparenza. Non esistono a rigore «leggi naturali». Qualche pio musulmano tempo addietro propose persino di derubricare le «leggi naturali» a «divine consuetudini»: soltanto la costanza con cui Dio crea una sequenza di eventi (ad es. alba-luce, caduta-rottura, mangiare-saziarsi. ecc. ) ci induce a ragionare in termini di causa e effetto, là dove il teologo musulmano classico direbbe che è sempre Dio che in corrispondenza di una presunta «causa» produce un presunto «effetto». Si parla non a torto di una concezione di tipo occasionalistico: in «occasione» di un determinato evento Dio ne «occasiona» un altro dandoci 1'illusione di un rapporto di causalità, là dove è sempre Dio che sta dietro e alla presunta causa e al presunto effetto. Un classico esempio riportato nei manuali analizza il caso del carnefice che recide la testa al condannato: apparentemente, è il commento. la causa del cadere della testa è stata la sciabola del carnefice, e invece è Dio che in corrispondenza o in «occasione» dell'abbassarsi della sciabota determina (ma il teologo musulmano direbbe: crea) il distacco della testa del malcapitato. Questa concezione, come risulterà chiaro dagli esempi fatti, appiattisce sotto 1'azione creativa di Dio sostanze e accidenti: a ben vedere Dio crea, istante dopo istante, la sciabola così come il suo abbassarsi, crea la testa del condannato così come il suo distaccarsi. Portata alle estreme conseguenze Dio crea ogni sostanza così come ogni sua successiva modificazione (accidente ): crea tanto 1'uomo così come ogni suo singolo atto. Infatti, ragionano i teologi musulmani, se si ammettesse che 1'uomo crea i propri atti, bisognerebbe ammettere un secondo «creatore» accanto a Dio; con lo stesso tipo di ragionamento si negava 1'esistenza di causae secundae e si tendeva ad accusare di materialismo quei filosofi che ammettevano il principio di causalità nella materia.
Queste concezioni, come si può facilmente dedurre, aboliscono anche ogni reale confine tra evento normale ed evento miracoloso: tutto in realtà è sospeso, istante dopo istante, agli atti puntuali della divina determinazione. In sostanza queste concezioni ci propongono 1'immagine di un Dio iper-interventista. Ogni cosa, fenomeni naturali ed eventi sociali, procede sotto la divina, instancabile, propulsione. Sotto questo aspetto c'è nel Corano un vero appiattimento dei valori creati: 1'alternarsi del giorno e della notte così come il ritmo del sonno-veglia, le nubi che navigano nei cieli al pari delle navi che procedono sul mare (cfr. II, 164), uominì e animali, ogni cosa sopravvive in virtù di un impulso divino, una sorta di «battito» universale che, cessando, precipiterebbe ogni cosa nel nulla. Venuta meno questa divina propulsione, «ogni cosa perisce fuorché il Suo volto!» (LV, 26-27). L'espressione proverbiale «non cade foglia che Dio non voglia», che si trova quasi alla lettera nel Corano (VI, 59), descrive compiutamente la situazione.
Ecco perché, in questo quadro, lo stesso concetto di storia applicato all'uomo risulta quanto mai evanescente: la storia non è il teatro dell'azione umana, è bensì il teatro del1'onnipresenza divina, in cui un macro-soggetto sovrasta tutti gli altri attori: «A Dio appartiene 1'oriente e 1'occidente, e ovunque vi volgiate ivi è il volto di Dio!» (II, 1 15). Allah, come s'è detto fa e disfa la scena a suo piacere, manda avanti e si riprende gli «attori» in qualsiasi istante. Gli uomini, in questo tipo di concezione, non sono «cooperatori» del piano divino quanto piuttosto suoi strumenti più o meno inconsapevoli, verrebbe da dire marionette più che attori. Insomma è Dio il vero e unico attore, l'unico reale soggetto della storia, 1'onnipresente Autore di ogni evento dal più palese al più riposto. Tutto il contrario di quel deus otiosus che era 1'Allah degli arabi preislamici, ma anche un dio diverso dal dio della tradizione ebraica e cristiana che certamente «dirige» la storia, ma dentro di essa «coopera» con 1'uomo.
Un altro aspetto differenziale andrebbe qui sottolineato. Manca nella concezione coranica della storia, o vi appare quanto mai attenuato, 1'elemento drammatico, connesso con la lotta tra Bene e Male, tra Dio e il suo tradizionale nemico. Dopo quanto s'è detto, le ragioni sono in parte intuibili. Nel Corano e nella Tradizione si afferma concordemente che Allah è il creatore d'ogni cosa, e dunque non solo del Bene ma pure del Male. Ammettere per il male un Autore diverso avrebbe significato introdurre un elemento di dualismo che risulta incompatibile con il «sistema» della teologia coranica, tutto costruito sul pilastro dell'unità/unicità (tawhîd) di Dio. Lo stesso Iblîs (il Satana coranico, il cui nome è forse corruzione del greco diàbolos) non è un avversario reale di Allah, non è neppure alla lontana un nemico alla sua altezza. L'onnipotenza divina non tollera un altro macro-soggetto, un antagonista vero. Per convincersene è sufficiente un brano coranico in cui Allah, dopo aver creato Adamo, dice agli angeli:

    «Prosternatevi davanti ad Adamo! » Si prosternarono tutti ad eccezione di Iblîs, che non fu tra i prosternati. Disse allora Allah: «Cosa mai ti     impedisce di prostrarti, nonostante il mio Ordine?». Rispose: «Sono migliore di lui. mi hai creato dal fuoco, mentre creasti lui dalla creta». «Vattene - disse Allah - qui non puoi essere superbo. Vai! Sarai tra gli abbietti». «Concedimi una dilazione - disse Iblîs - fino al giomo in cui saranno tutti resuscitati». «E sia - disse Allah - ti è concessa una dilazione».
E disse Iblîs: «Dal momento che tu mi hai sviato, tenderò loro agguati sulla Tua retta via, e li insidierò da davanti e da dietro. da destra e da sinistra, e la maggior parte di loro non Ti saranno riconoscenti».
«Vattene - disse Allah - scacciato e ricoperto di abominio. Riempirò l'inferno di tutti voi...» (VII, 11-18).

Si tratta di un brano denso e che meriterebbe un vasto commento. Mi limito a sottolineare poche cose: Iblîs ribadisce che è Dio 1'Autore d'ogni cosa, anche del suo stesso «sviamento». Lo stesso Corano afferma innumerevoli volte che «Dio guida chi vuole e svia chi vuole» senza dover rendere conto a nessuno.
Iblîs appare subito ridotto all'impotenza, la parità è già decisa all'inizio. C'è un solo vincitore, ma il perdente ha l'astuzia di chiedere una «proroga» (muhla) all'esecuzione della condanna. Ed è solo entro il termine di questa proroga - che Allah decide di concedergli - che Iblîs potrà conservare una certa libertà di manovra scorrazzando a piacere per il mondo. Ma egli sa di avere già perso in partenza, la sua è una vendetta che Allah - per suoi imperscrutabili disegni - decide di lasciargli compiere: 1'Iblîs coranico è insomma una sorta di criminale in libertà vigilata, potrà insidiare e indurre al male in virtù di un decreto divino che gli concede una «proroga». Non c'è una vera battaglia perché uno dei due contendenti è alla mercé del1'altro, infinitamente più potente, perché il male stesso - sia lo «sviamento» di Iblîs che i suoi futuri complotti a danno dell'umanità - è stato in ultima analisi «permesso» se non voluto da Allah. Se qualcosa dell'antico dualismo di matrice iranica ancora si conserva nella concezione cristiana, ove Satana giunge persino a tentare il Dio-Uomo nel deserto, qui è praticamente scomparso 3.
Non è un caso se, a partire da questi elementi di analisi, s'assisterà a una (per noi) inopinata rivalutazione di Iblîs in certi ambienti, in particolare nella mistica musulmana 4. Sviluppando la descrizione coranica e traendone le più logiche conseguenze, si arriverà a dire che in fondo Iblîs non fa che attuare fedelmente un disegno divino. Egli fa tutto «con il permesso di Dio», in virtù della proroga a lui concessa. Anche Iblîs è dunque un «servo di Dio», un po' sui generis magari, ma comunque impegnato nel piano divino.
Qualcuno, come ad esempio il grande mistico persiano Rumi (m. 1273), giungerà anzi ad affermare che Iblîs è un servo migliore, perché in fondo è facile servire Dio venendo da lui amati, molto più difficile è servirlo essendo stati da lui maledetti. Si tratta di un ragionamento portato sull'orlo del paradosso, ma che ha tutta una sua interna e impeccabile coerenza. Di qui a proporre Iblîs come modello del mistico il passo era breve, e come Rumi innumerevoli altri sufi - così indulgenti al gusto del paradosso e della provocazione - rivaluteranno questa figura. Rumi stesso ci porge in un suo scritto una intelligente chiave di rilettura: Iblîs è il protagonista di una tragedia tutta personale. Egli rifiuta infatti di prostrarsi di fronte ad Adamo spiegando - si legge nel testo di Rumi 5 - che nessun altro essere all'infuori di Dio è degno di ricevere 1'altrui prosternazione, ovvero un atto di adorazione. E qui sta tutta la tragedia e insieme la grandezza di Iblîs: per non cadere in un peccato di idolatria prosternandosi ad Adamo, Iblîs è costretto a disobbedire a un ordine di Dio ricevendone la eterna maledizione. Dio - lamenta Iblîs -gli ha teso una trappola; in altre parole, aveva messo Iblîs di fronte a una tremenda alternativa: disobbedirgli o farsi idolatra. Rifiutando di prostrarsi ad Adamo Iblîs ha scelto, ha «santamente» scelto il male minore: disobbedendo a Dio si trasforma agli occhi dei mistici musulmani nel più fiero e coerente apostolo del monoteismo! Il Grande Tentatore. anche lui insomma, avrebbe qualcosa da insegnare ai più santi tra gli uomini!

LA PROSPETTIVA ESCATOLOGICA NELL'ISLAM

Nell'islam la prospettiva escatologica è fondamentale. «A Dio tutti ritornerete» si legge: ma ancor più frequentemente è dato leggere «Ogni cosa deve tornare a Dio», ovvero non solo 1'uomo, ma 1'intero creato. Si tratta di un aspetto differenziale rimarchevole, rispetto alla tradizione giudeo-cristiana. La fine dei tempi prevede una sorta di «creazione alla rovescia» o revoca del creato, chiamato tutto di fronte a Dio. È il tema del rujû' o «ritorno», ampiamente sviluppato da autori di orientamento mistico o gnostico e facilmente conciliabile con le concezioni neoplatonizzanti che caratterizzeranno questi ambienti religiosi a partire dal X-XI secolo. In questo contesto non stupisce che persino gli animali debbono «tornare» a Dio: il Corano infatti prevede esplicitamente che saranno radunati nel giorno del giudizio e distinti per comunità 6. Secondo tarde tradizioni essi sarebbero chiamati, più che a rispondere del loro operato, a testimoniare delle malefatte umane... Il giudizio interesserà anche i jinn, o spiritelli, esseri intermedi tra gli uomini e i demoni già conosciuti alla tradizione popolare preislamica.
Nel Corano e nella tradizione si parla diffusamente della fine dei tempi e in particolare del giorno del giudizio con toni particolarmente coloriti: cataclismi naturali e cosmici, sovvertimenti delle leggi naturali, terrore e fuga disperata degli ingiusti 7. Si legga ad esempio la splendida, brevissima, sura XCIX:

    Quando sarà scossa di scossa grande 1a terra, quando rigetterà i suoi pesi morti la terra. e dirà l'uomo: che cos'ha mai?
In quel giorno la terra racconterà la sua (= dell'uomo) storia, ché gliela rivelerà il Signore. In quel giorno gli uomini a frotte staccate verranno a farsi mostrare le opere loro. E chi avrà fatto un grano di bene lo vedrà. E chi avrà fatto un grano di male lo vedrà.

Altrettanto vivida è la descrizione del giudizio:

    Quando il cielo si spaccherà... quando sarà spianata la terra... O uomo! Tu che tanto pieno di desiderio ti protendi verso il Signore ebbene allora Lo incontrerai. E colui cui sarà dato il libro [delle sue azioni] nella mano destra, facile sarà per lui la resa dei conti e tornerà dai suoi felice; ma colui cui sarà dato il libro [delle sue azioni] dietro la schiena, disperato invocherà la morte e andrà a bruciare nelle vampe dell'infemo. Fra i suoi egli infatti viveva felice e s'illudeva che non sarebbe mai tomato a Dio. Ma il Signore lo rimirava... (LXXXIV, 1-15).

La Tradizione (hadîth) aggiunge altri particolari curiosi, come ad esempio il famoso «ponte» (sirât) sottile come un capello e sospeso sull'abisso infernale su cui i risorti cammineranno precipitando di sotto se vi giungeranno appesantiti dal peccato; le bilance escatologiche, su cui verranno «pesate» le azioni di ciascuno; la fonte di acqua paradisiaca a cui si disseteranno i beati e così via. Inferno e paradiso con i rispettivi tormenti e gaudii sono minuziosamente descritti in altre tradizioni, soprattutto quelle relative al misterioso viaggio ultraterreno di Maometto che pare riprenda lo schema e molti motivi di varie apocalissi apocrife ebraiche e cristiane 8.
Quel che qui interessa evidenziare è tuttavia un altro aspetto connesso con la «collocazione» temporale del regno di Dio. Chiunque abbia letto 1'Apocalisse di Giovanni e quelle giudeo-cristiane della cosiddetta letteratura intertestamentaria (dal II secolo a.C. al II secolo d.C.) si trova di fronte a una opposizione netta tra il tempo presente e il tempo escatologico. L'uno contrassegnato da violenza, persecuzione e sofferenza inaudite, 1'altro visto con gli occhi di chi è sepolto in fondo al «tunnel» della storia e anela ad uscirvi per sempre. Attraverso questa letteratura apocalittica ebraica e cristiana spira infatti 1'eco del dolore e della passione di un popolo che si vede violentato e martoriato dal tempo presente: le persecuzioni dei Romani, la distruzione del Tempio nel 70 d.C., la vita semiclandestina dei cristiani nei primi secoli e tutto il resto. Questa letteratura ci presenta un popolo che proietta di necessità la propria salvezza, il regno di Dio, in un Tempo Altro, in un saeculum novum. «Il regno di Dio non è di questo mondo» sentenziavano i cristiani sin dai primi tempi ripetendo un celebre detto di Gesù, il «perseguitato» per eccellenza. E alla morte di Gesù, quasi tre secoli di amare vicissitudini, di pericoli e martìri quotidiani - per non parlare della feroce concorrenza dei culti e misteri ellenistici - attendevano la comunità cristiana prima che essa si vedesse finalmente riconosciuto formalmente il diritto a esistere e a praticare il proprio culto.
Tutt'altro discorso si deve fare a proposito dell'islam alla morte di Maometto (632). A dire il vero, già due anni prima, al momento della sua trionfale conquista della Mecca, 1'islam aveva avuto partita vinta nella penisola araba. I due anni seguenti furono contrassegnati dalla lunga processione di capitribù arabi che si presentavano al Profeta per stipulare patti di sottomissione a lui e al suo dio. Alla morte di Maometto insomma 1'islam era già una religione trionfante, e un clima di gioia e di esaltazione si era impadronito della nuova comunità religiosa. Nel giro di altri venti anni, le armate musulmane facevano crollare le due grandi potenze dell'epoca, 1'impero persiano che nel 650 già non esisteva più e l'impero bizantino che preservava la sua esistenza a prezzo di dolorosi sacrifici territoriali (Siria-Palestina, Egitto, parte dell'Anatolia). Ma la marcia trionfale dell'islam doveva continuare senza soste. Nel 711, ossia neppure novant'anni dopo la morte del Profeta, le avanguardie musulmane sbarcavano a Gibilterra e a oriente entravano nella valle dell'Indo. Già nel primo secolo della sua esistenza 1'islam aveva raggiunto una dimensione imperiale di tutto rispetto: conquiste e bottini, conversioni di massa e successi senza tregua confermavano anno dopo anno agli occhi dei musulmani la «benedizione» celeste per la loro nuova fede 9.
Insomma, un clima totalmente diverso da quello in cui si trovò immersa la primitiva comunità cristiana. Un clima che induceva l'homo islamicus a guardare al secolo presente, al suo tempo. come a una era benedetta da Dio, forse già un «anticipo» del regno di Dio. E veramente lo stato teocratico fondato da Maometto, e immensamente ampliato dai califfi suoi successori, doveva apparire ai musulmani già come una prefigurazione della Civitas Dei. Che altro era la «città islamica» se non una città governata secondo i dettami di Dio, che aveva la sua stessa «carta costituzionale» nel Corano e il suo stesso capo in Allah? Il regno di Dio restava certamente quello escatologico. ma nulla delle ansie e delle sofferenze, del1'angoscia e delle persecuzioni, conosciute da ebrei e cristiani, era dato vedere nello stato teocratico e imperiale fondato da Maometto. Neppure la progressiva frammentazione dell'impero (a partire dalla seconda metà del IX secolo) scalfirà la certezza dei musulmani di trovarsi nel migliore dei paesi, nel migliore dei tempi, corroborata peraltro dall'affermazione coranica che «la comunità di Maometto» era «la migliore delle comunità», 1'eletta da Dio. un anticipo consistente e visibilissimo del regno di Dio e prefigurante già in terra il suo futuro regno, non doveva subire scosse di rilievo almeno sino all'epoca delle conquiste coloniali europee del XIX secolo.
Di questo clima particolare. di una fede che ha realizzato già nel secolo presente il proprio trionfo, risente pure la concezione islamica della vita futura e dell'aldilà.
Com'è noto, non troviamo nel paradiso coranico, e neppure nelle più tarde descrizioni tradizionali, una beatitudine concepita come «visione di Dio» e assaporamento di gioie puramente soprannaturali 10, non v'è nulla che faccia pensare a quelle atmosfere rarefatte e tutte spirituali del paradiso dantesco o anche di quello descritto nella letteratura apocalittica apocrifo-cristiana (Apocalisse di Pietro, Apocalisse di Paolo). Vediamone una descrizione:

    ... i paradisi sono tutti di splendore. E in essi v'è un gran numero di città e di castelli, e sono tutti di splendore. E anche i palazzi, le case. le sale, i saloni e tutte le cose che si trovano in quelle città e in quei castelli sono di splendore. E inoltre vi sono alberi così numerosi e di specie così diverse [...] e similmente per la varietà dei frutti che fanno. Sono infatti più belli dei rubini, degli smeraldi e delle pietre preziose, e più profumati d'ogni cosa che si possa immaginare. E per questi giardini scorrono fiumi di così diversi colori che nessuno è in grado di dirlo, né meditarlo in cuor suo. E tutti profumano meravigliosamente.
E sulle rive dei fiumi vi sono così numerose tende, e di fogge diverse, e tante case [...] di così mirabili forme che nessun cuore umano potrebbe concepirlo [...]. E negli attendamenti e nelle case che si trovavano sulle rive dei fiumi v'erano le dame più avvenenti e più pure, e dagli occhi più belli e dagli sguardi più amorosi che cuore umano sia in grado di concepire [...]. Quelle dame siedono ordinate una appresso all'altra e paiono le creature più belle del mondo. Esse innalzano le loro voci e cantano così dolcemente... 11".

Si tratta di un testo che si rifà a fonti tradizionali (hadîth) risalenti almeno al IX secolo. Rispetto alla descrizione coranica della vita dei beati - che già parla ripetutamente di fiumi e giardini, e di giovani vergini promesse ai beati in un contesto naturalistico che è quello tipico dell'oasi -sono evidenti numerosi ampliamenti ed enfatizzazioni, ma anche elementi del tutto nuovi che rimandano al secolo, quel secolo in cui si affacciava lo splendore di un islam giunto al suo apogeo. Nella profusione di oro e splendore, di castelli e palazzi sontuosi non è difficile scorgere in controluce il modello: le corti califfali di Damasco e soprattutto di Baghdad.
Si osservi come gli elementi «secolari» siano come trasfigurati e idealizzati: non v'è più penuria, né decadenza, né invecchiamento. I palazzi sono eternamente «splendidi». gli alberi danno frutti senza posa - in altre descrizioni tradizionali, i frutti ricrescono all'istante non appena staccati dal loro ramo - le «dame», ovvero le famose urì coraniche, sono rese eternamente giovani e vi sono coppieri efebici che circolano tra gli scranni dei beati mescendo dei vini che «non danno mai pesantezza» o sopore, e si potrebbe continuare.
È insomma una vita futura in cui lo sfavillare di ori e argenti e pietre preziose, la magnificenza di case e palazzi, 1'abbondanza di «dame» meravigliose e di premi concessi ai beati pare riflettere specularmente - non ribaltato, bensì si direbbe, rettificato e portato a ideale perfezione - un saeculum che non poteva apparire ai seguaci dell'islam nella stessa luce sinistra conosciuta dalle antiche comunità ebraiche e cristiane, e dunque poteva ben fornire una immagine «in filigrana» del paradiso promesso. In conclusione, la vita futura della tradizione islamica non è descritta in termini di un «ribaltamento» della greve materialità di quella terrena, non le si oppone radicalmente come avviene nelle descrizioni cristiane tutte improntate a gaudii spirituali e gioie soprannaturali e rarefatte. Essa appare bensì una proiezione della vita terrena, una sua «rettificazione» all'infinito. Il tempo terreno non viene obliato, bensì trasfigurato e idealizzato: le gioie terrene (donne, vini, paesaggi) diventano paradigma delle gioie celesti.
È significativo che nel Corano non si accenni mai esplicitamente e inequivocabilmente a una visio Dei come premio concesso ai beati, ma al massimo si accenni a un «di più» rispetto alle altre cose:

    colà avranno tutto quel che vorranno e presso di Noi c'è ancora di più (L, 35).

espressione intesa da molti teologi e da quasi tutti i mistici come allusione a una visione diretta del volto di Dio. Occorre qui sottolineare che gli esegeti musulmani non hanno dato una interpretazione univoca della descrizione coranica del paradiso. Se la lettura letteralista appare prevalente, molti esegeti sottolineano però che le descrizioni in termini sensuali o materialistici delle gioie paradisiache potrebbero essere solo «metafore», giacché, avverte un po' sibillinamente il Corano dopo una di queste descrizioni, «Dio non si vergogna di usare similitudini». Il Corano peraltro lascia intendere che quel misterioso «di più» non sarà concesso a tutti i beati indiscriminatamente giacché:

    Ognuno sarà ricompensato in modi diversi per quel che avrà fatto. Il Signore non trascura quel che essi operano (VI. 132).

Insomma per molti beati la vita futura potrebbe anche risolversi in un ameno soggiorno nei giardini del paradiso tra dolci «dame» e gentili «coppieri», ma senza la gioia suprema di un'udienza faccia a faccia concessa dal Sovrano celeste.


Note  - per risalire al testo, al termine di ogni nota, premi su: -
1 - Uno sguardo a temi e personaggi comuni alla Bibbia e al Corano
si trova in J. JOMIER, ll Corano è contro la Bibbia?, Nuova Accademia, Milano 1961; e nel più recente C. GUZZETTI, La Bibbia e il Corano. Confronto sinottico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995. 
2 - Su queste tematiche. si veda 1'eccellente T. IZUTSU, Unità dell'esistenza e creazione perpetua nella mistica islamica, tr. it., Marietti. Genova 1991. Per un inquadramento della teologia musulmana, si vedano i relativi capitoli in C. SACCONE, Allora Ismaele s'allontanò nel deserto... I percorsi dell'Islam da Maometto ai nostri giorni. EMP, Padova 1999, e relativa bibliografia. 
3 - Cfr. P.FILIPPANI-RONCONI, Spazio e tempo nella gnosi iranica, in «Simplegadi. Rivista di filosofia orientale e comparata» 3 ( 1998), n. I. pp. 20-42 
4 - Su Iblîs e la mistica musulmana si veda A. BAUSANI, Persia religiosa, Milano 1959, pp. 258-264 e 274-275. 
5 - Ivi, p.263. 
6 - Cfr. il mio saggio, Gli animali nel Corano: una comunità parallela, in «Studia Patavina. Rivista di scienze religiose» 43 (1996), n.3. pp. 95-123. 
7 - Sull'ultimo giorno e I'escatologia musulmana si vedano S. EL-SALEH, La vie future selon Ie Coran, Paris 1971; D. SOURDEL, Le jugement des morts dans I'islam, in AA.VV., Le Jugement des morts, Paris 1961: si veda. per la traduzione, il testo citato alla nota che segue. 
8 - Sull'argomento rimando al mio saggio Il mi'râj di Maometto: una leggenda tra Oriente e Occidente. in I1 Libro della Scala di Maometto, tr. it. di R. ROSSI TESTA, a cura di C. SACCONE, SE, Milano 1997, pp. 155-191. 
9 - Per uno sguardo d'insieme, cfr. C. CAHEN, Islamismo I, tr. it. in Storia Universale Feltrinelli, Milano 1969. 
10 - Sull'argomento. cfr. C. SACCONE, L'angelologia musulmana, in «Studia Patavina» 38 ( 1991 ) n. 3, pp. 47-91. 
11 - II Libro della Scala di Maometto, cit., pp. 61-62. 



Da: Carlo Saccone, Il tempo nell' islam, in Il tempo e i tempi della fede, Edizioni Messaggero, Padova, 1999, pp. 33-39 e 44-50.
Si segnalano nel medesimo volume i contributi di Piero Stefani, Il tempo nell'ebraismo, pp. 13-26 e di Gian Luigi Prato, Il tempo e la storia nella Bibbia, pp. 97-1 17.   Torna all'inizio del testo


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