APPROFONDIMENTI CULTURALI                                                                XXXVIII (ANNO XX, N. 1)

LIANA MILLU: IL DIARIO DEL RITORNO DAL LAGER

    I partecipanti al convegno padovano Male, Bibbia e Occidente del 1998 hanno ben presente un intervento non previsto dal programma ufficiale. L'ultima mattina nella grande sala posta tra i chiostri e le secolari magnolie della basilica di S. Antonio prese la parola Liana Millu. Parlò di quanto i suoi occhi avevano visto in un luogo, Auschwitz, divenuto nel nostro tempo simbolo pregnante dell'eccesso del male. Come sempre la sua voce non espresse odio o rancore, indicava invece amore per la vita e ammoniva, con pensosa e pacata dolcezza, a non lasciarsi sedurre dall'indifferenza. Il pranzo a buffet offerto nei chiostri invasi di luce primaverile fu per molti occasione di colloquio e ringraziamento.
    Da circa un anno la lunga vita terrena di Liana è giunta a termine. Nell'intervista che aveva dato al TG3 ligure il giorno del suo novantesimo compleanno, il 21 dicembre 2004, le era stato chiesto: «Signora Liana Millu, la vita è bella?». La risposta di Liana, detta in tono calmo e profondo e come disincantato, era stata: «Sì, la vita è bella - non dovrebbe esserci la morte». Questa sola frase meriterebbe lunghi commenti nel nostro prossimo convegno astigiano. Tuttavia quando irromperà la prossima primavera avremo davanti a noi molte, altre inedite parole di Liana Millu. A fine marzo sarà infatti in libreria per i tipi della Giuntina, Tagebuch. Il diario del ritorno dal Lager. Ringraziamo Daniel Vogelmann per averci concesso il permesso di anticipare sulle pagine del Notiziario l'introduzione al testo. Nella parte finale l'introduzione riporta un lungo stralcio di una lettera della Millu risalente alla metà degli anni Novanta. Per certi versi la si potrebbe intendere come una specie di riscrittura laica e umanissima del duello tra vita e morte cantato dalla liturgia cattolica in un suo famoso inno pasquale. Si è davanti però a uno scontro pacato in cui si ode non lo stridore di armi ma la piacevolezza di note musicali, si vedono non bagliori di lame ma raggi di luna.
    Liana Millu è andata incontro a una morte solitaria nelle corsie di un ospedale genovese; nel 2005 vi è stata un'altra morte seguita, questa volta, da molte centinaia di milioni di persone. Le ultime ore di Giovanni Paolo II ci insegnano molte cose. La morte del papa è avvenuta, per più aspetti, nell'orizzonte della tecnica. Da sempre si discute sui limiti dell'uccidere, nel mondo d'oggi è diventato anche indispensabile stabilire quali siano quelli relativi al prolungamento artificiale della vita. Giovanni Paolo II è riuscito da ultimo a scongiurare un ennesimo trasferimento in ospedale. Questo gesto ha dato un oggettivo valore di magistero alla sua morte. Egli ha in tal modo confutato la spietata certezza pseudo-dottrinale che la volontà di Dio si presenti sotto le vesti antagoniste agli sforzi dei medici, quasi che essa si affermi solo là dove falliscono le terapie più accanite. Per un credente dovrebbe essere ovvio che la vittoria sulla morte stia nella fede e non nella tecnologia. C'è però voluta la morte di un papa per ricordarlo. Forse ciò è avvenuto anche contro alcune prese di posizione da lui espresse in precedenza. Tuttavia questa certezza vale anche per il vescovo di Roma: l'esistenza, nel suo estinguersi, contiene un sigillo di verità maggiore di ogni dottrina. In questo senso vanno forse interpretate pure le ultime parole pronunciate da Giovanni Paolo II, ormai rese ufficialmente note: «Lasciatemi andare alla casa del Padre». A differenza di Gesù, il papa non si congeda dall'esistenza rivolgendosi direttamente a Dio Padre ( Lc 23,46 ), ma supplica gli astanti di smettere di insistere in una vana lotta.

P. S.



    Si tratta di un quaderno di non grandi dimensioni: 12 x18 cm., di un'eleganza un po' massiccia per cui si vorrebbe spendere l'aggettivo tedesca. È ricoperto di pelle zigrinata. Sul fianco ha una piccola serratura per custodire meglio segreti, probabilmente sentimentali, di qualche signorina di un tempo. In alto a sinistra, in caratteri gotici dorati, introdotti e chiusi da riccioletti, vi è scritto Tagebuch, diario. A motivo degli ornamenti la T iniziale sembra contenere una specie di chiave di violino. Forse un segno augurale; con esso si voleva invitare l'acquirente a riempire con la melodia, lieta o struggente, della propria esistenza i cinquantasei fogli senza righe e di carta piuttosto spessa che compongono il diario. Il quaderno ha però soprattutto l'aspetto degli oggetti che si regalano; doni spesso destinati a restare inutilizzati o perché non corrispondono ai bisogni di coloro che li ricevono o perché le circostanze hanno preso una piega imprevista. Le cose, come le esistenze, possono andare incontro a sorti inimmaginabili. Questa imprevedibilità diviene in tal caso il sigillo più autentico del loro essere unici.
    Sta di fatto che quando fu trovato ai primi di maggio del 1945, in una fattoria abbandonata del Meclemburgo, il Tagebuch era ancora in bianco. Accanto c'era una matita. Liana Millu proveniva dal vicino Lager di Malchow. Vi era stata trasferita l'autunno precedente. Giungeva da Birkenau, il campo femminile presso Auschwitz dove c'erano i crematori. In quel periodo i russi sembravano prossimi a giungere e cominciarono le prime evacuazioni. L'avanzata però si arrestò e per la liberazione si dovette attendere il 27 gennaio. Nel campo di concentramento del Meclemburgo l'inverno fu duro, ma non c'erano camere a gas. Chi resistette fino alla primavera vide arrivare le truppe russe e con esse una libertà contraddistinta, nei primi tempi, da uno zingaresco vagare e da un bisogno di cibo impresso in modo inestirpabile nelle profondità del proprio essere. Il primo gradino da risalire per recuperare la condizione umana era di cogliere il mangiare come un mezzo necessario per vivere e non come un fine in se stesso, in quest'ultimo caso infatti la fine sarebbe stata dietro l'angolo. Non fu evento raro che una fame insaziabile conducesse alla morte per l'azione combinata dell'inedia passata e del soddisfacimento presente. La cascina saccheggiata conteneva cibo, ma in mezzo al disordine emerse anche il diario dalle pagine bianche e la matita destinata ad avere un singolare futuro. Non si erra a giudicarle ancore di salvezza portatili della vita di Liana Millu. Tramite quelle pagine anche l'anima fu in grado di ritrovare il proprio respiro. Fu rinvenuto il 3 maggio, le prime annotazioni risalgono però solo a una settimana dopo. Le pagine iniziali contengono anche brevissime note di cronaca, in cui sono presenti i pericoli connessi al ritorno al cibo. L'atto di scrivere ha bisogno di un minimo di distacco. A dirlo è il diario stesso le cui righe si infittiscono quando la necessità di agire e il pungolo del male fisico si fanno meno violenti. Oltre il grande baratro del Lager, Millu ritrova a poco a poco la capacità di fermare uno stato d'animo e un pensiero sulla carta. Li riveste di parole e dà loro forma innanzitutto per lei stessa. Lo scrivere per Liana è sempre stato l'apice della sua peculiare propensione a esaminare, nell'ordine, se stessa, le altre persone e le circostanze in cui si è trovata a vivere.
    Entrata in Lager a trent'anni, Liana Millu aveva alle spalle la vocazione di scrivere. L'essere rimasta orfana di madre in tenerissima età, l'infanzia difficile per un'educazione che non corrispondeva alle sue esigenze, il ribellismo giovanile che l'aveva condotta all'ateismo in reazione alla componente sia ebraica sia cattolica della propria famiglia, il mestiere di maestra intrapreso subito dopo il diploma, le molteplici, disordinate letture, tutto sembrava portarla a un approdo: fare la giornalista. Scelta anticonformista per una giovane degli anni Trenta; ma anche realizzazione del desiderio di osservare, descrivere, analizzare, frutto di uno spaesamento, avvertito fin dall'infanzia, che fa compiere all'animo un passo indietro per poter guardare meglio. Le leggi razziali del '38 interruppero tanto la sua carriera di maestra iniziata nell'antica Volterra quanto la collaborazione con i giornali. La pisana Millu si trasferì allora a Genova divenuta da quel momento in poi la sua città. Seguirono anni contrassegnati da vari mestieri, compreso quello della serva (espressione senza perifrasi che trova riscontro nel Tagebuch) e da intense esperienze sentimentali. Una volta scoppiata la guerra e trascorso il fatidico 8 settembre, decise di entrare nella Resistenza. Non si trattò di una scelta sostenuta da una forte adesione a una ideologia politica. Non faceva parte della sua personalità darsi anima e corpo a una parte e aderire a una visione elaborata da altri. Non a caso si dichiarò sempre aliena ai partiti.
    Catturata a Venezia nella primavera del '44, fu presto deportata ad Auschwitz Birkenau. Quando entrò nel Lager Liana Millu non era sostenuta né da una fede religiosa, né da una fede politica; due pilastri che aiutavano a sopravvivere e a dare speranza in un luogo scientificamente programmato per rendere sottouomini coloro che erano arbitrariamente considerati già tali. I deportati trattati da «pezzi da lavoro (Arbeit Stücke) ben presto effettivamente sarebbero divenuti tali se in loro non avesse operato una controforza. Quest'ultima Liana la definiva fede. Ve ne erano di tre tipi; oltre a quella religiosa e politica, vi fu quella che Liana Millu stessa definì laica. Della fede religiosa si conobbero epifanie commoventi, quella politica operò una resistenza anche in mezzo a pericoli atroci; la sua fede laica - che l'avvicinava a Primo Levi - faceva invece della mente e dell'anima un baluardo, un bunker inviolabile alla brutalità e alle abiezioni, un rifugio dove conservare l'idea di tutto quel che rende «civile»la vita. In quest'ambito un ruolo decisivo lo svolgevano le poesie apprese a memoria e perciò divenute parte di se stessi (si pensi all'esempio più celebre: «Il canto di Ulisse»in Se questo è un uomo). Questi frammenti vividi di memoria sono ben presenti nel Tagebuch. Tra le risorse dell'animo vi era però anche la volontà di osservare se stessi e gli altri.
    La capacità di guardarsi esprime una particolare cura di sé che conosce la pietas ma ignora la chiamata evangelica a rinnegare se stessi e l'imperativo di darsi totalmente per gli altri. Liana Millu l'ha sempre riconosciuto; molte volte ha ripetuto che i migliori non sono ritornati. Le due realtà non sono incompatibili. La fede laica comportava l'intransigente difesa della propria dignità: di essa faceva parte la tutela di se stessi. Questa scelta esigeva di non lasciarsi allagare l'animo dall'immensità della tragedia che stava svolgendosi tutto intorno; di non alzare alta una voce piena di sdegno per l'ingiustizia che si consumava attorno. Bastava un solo spiraglio e da quella fessura avrebbero fatto irruzione ombre oscure: la persona allora si sarebbe consumata come una candela. Era sufficiente elevare un aperto grido di protesta per essere abbattuti all'istante per mano dei carnefici. Lo stesso esito letale provocava lo struggimento per i propri cari: per il marito, la moglie, i figli. Entrata e uscita sola dal Lager, Liana fu salvata anche da questa mancanza del pensiero rivolto ai parenti stretti. Dopo, quando l'idea del ritorno era uscita dall'ambito dei sogni e delle improbabili speranze per diventare possibilità concreta, la constatazione di essere sola sarebbe diventata motivo di profonda inquietudine. A differenza di altri, alla stazione ad attenderla non ci sarebbe stato nessuno; questo stato d'animo trapela più volte lungo le pagine del Tagebuch. Prima, però, le parti erano rovesciate: la privazione costituiva una forza.
    Quando, dopo un anno di Lager, le mani della Millu raggiunsero il diario la fede laica e la capacità di osservare trovarono l'occasione di riempire pagine scritte solo per se stessa. Da qui il carattere di assoluta sincerità che le contraddistingue (solo l'ultima parte, mi disse una volta, era stata un poco adattata: sapeva che poche ore dopo quelle parole sarebbero state lette pure da un'altra persona). Quando scriveva quelle righe, stese per lo più in ospedale, l'ambiente attorno concedeva un minimo di requie. Questa specie di anticipo ha fatto sì che l'aspirazione a una più stabile e serena solitudine sia una costante nel diario. La pagina scritta lasciava assaporare quella che allora era solo un'aspirazione irraggiungibile: raccogliersi tranquillamente in se stessa. Le primissime parole del Tagebuch sono la sigla del suo nome - Lim - e un'espressione latina: una comes solitudo. Queste tre parole sono una cifra per comprendere tutte le altre pagine. L'eccezionalità del diario sta nell'essere stato scritto in re. Nessuna distanza temporale c'è tra lo scrivere e l'oggetto di cui si parla. L'ultimo brano risale a1 1 settembre 1945, appena varcato il confine italiano. Qua e là emergono ricordi delle recenti vicende di Birkenau o Malchow. Si tratta di riferimenti relativamente rari, in genere legati a situazioni presenti, come nel caso dei progetti e degli abbozzi di quello che sarebbe diventato il suo capolavoro narrativo, Il fumo di Birkenau, o delle sensazioni avute allora e paragonabili a quelle avvertite nel Lager, ad esempio la nostalgia per i libri.
    L'unicità del Tagebuch sta nel suo carattere pretestimoniale. Quando si scrive per se stessi non si è investiti dall'urgenza di comunicare ad altri. Liana Millu è stata per decenni una grande testimone sia della Shoah sia del senso che quell'evento deve avere per le persone d'oggi. La sua voce incrociava sempre due registri: il ricordo e l'invito alla vigilanza nei confronti della violenza odierna. Essa lottava soprattutto contro il male più subdolo: l'indifferenza. In questo suo dire era inscritto un tratto di umanità profonda. Liana ha parlato ad adulti e a giovani, ha varcato l'ingresso di innumerevoli scuole, si è rivolta a gruppi grandi e piccoli. Comunicava sempre una parola talmente efficace da farla diventare un evento per i suoi ascoltatori. Nella parte finale della sua vita applicava a se stessa una frase del biblico libro del Levitico: «Se è testimone perché ha visto e sentito qualcosa e non lo riferisce, colui porti il peso del suo peccato»(Lv 5,1). Poi aggiungeva: non mi graverò di questo peccato. Il Tagebuch non va però letto in questa chiave. Chi si avvicina ad esso secondo questa lunghezza d'onda, chi lo prende per un documento testimoniale resterà deluso. La colpa sarà sua, non del testo. Tutti coloro che hanno vissuto in mezzo alla catastrofe sanno che il sigillo immediato di quella forma di esistenza sta nella quotidianità e non nella percezione epocale. Quest'ultima può giungere solo dopo.
    Nelle pagine del diario il vivere quotidiano conosce anche i panni non esaltanti, ma veri, dell'insofferenza, dell'irritazione, qua e là anche del sarcasmo. Quando si registrano le proprie sensazioni nessuno è esente da componenti non nobili e a volte persino meschine. Il Tagebuch non è però solo questo. Vi sono pagine alte. Esse si muovono soprattutto su due registri: il coraggio di osservare i moti profondi del proprio animo e la capacità di guardare agli altri con un occhio in cui la descrizione può sfociare nella pietas. È il caso, mirabile, dei due ritratti di soldati tedeschi presenti nel diario. In essi la mancanza di odio per gli sconfitti è sostenuta dalla scelta di vederli e descriverli come persone. umane. Comprenderle nella loro umiliazione divenne antidoto potente alla vendetta. Un uomo colto come tale, vale a dire giudicato simile a noi stessi, non può essere detestato. L'abilità di analizzare e descrivere l'altro diviene in Liana Millu applicazione pratica della regola d'oro che comanda di non fare agli altri quanto non si vorrebbe che gli altri facciano a noi. Con le differenze del caso, l'eccellenza dell'atto di osservare vale anche per i ritratti dei compagni e dei medici. Il diario esprime il rammarico dell'autrice di non saper disegnare, tuttavia la forza visiva delle parole è tanto spiccata da rendere impossibile al lettore la condivisione di questo sentimento: i personaggi sono tutti lì davanti a lui, come se li vedesse.
    Dal 1 settembre 1945 nulla è stato più aggiunto. Non si è trattato però di un testo chiuso con sigilli. La sua autrice l'ha ripreso in mano più volte per leggerlo qua e là. L'ha fatto perché in esso ci sono abbozzi riproposti in racconti successivi. Nelle pagine del diario si trovano i primi progetti per il Fumo di Birkenau. Anzi vi è addirittura il titolo e uno schizzo per la copertina. In esso fa la sua comparsa anche una sensazione poi riscritta più volte: si tratta di un improvviso odore di violette percepito nitido e presente mentre le deportate camminavano in una gelida notte nei pressi di Malchow (cfr. sia I ponti Schwerin sia La camicia di Josepha). Nel Tagebuch compaiono inoltre due versioni della poesia in forma di preghiera intitolata Fa', o Signore, che, in una versione leggermente diversa, Liana ha recitato davanti a tanti, commossi ascoltatori. Con onestà grande, presentava quei versi come un'aspirazione di un animo bisognoso di conforto. Non erano un approdo alla fede; erano, a un tempo, espressione di un umano sentire e segno di quel passaggio che dopo il Lager rese agnostica lei che vi era entrata professando un ateismo militante.
    Gli scritti di Millu sono già avviati a essere studiati dal punto di vista letterario. I critici se ne stanno occupando sempre di più, crescete è il numero di tesi di laurea dedicate alla sua opera in Italia e all'estero. Colto in quest'ottica il Tagebuch fornirà un apporto indispensabile alla comprensione dell'opera letteraria dell'autrice. Qui tutto è allo stato nascente. Si è come ospitati in un nido pretestimoniale da cui sarebbe sorta, per gradi, la capacità di dare voce e umanità alle vittime che è il segno più profondo del testimoniare e dello scrivere di Liana Millu.
    Dopo essere stato frequentato per anni, a un certo punto il Tagebuch restò chiuso. A metà degli anni Ottanta, con un gesto indimenticabile, il diario fu consegnato all'autore di questa introduzione. Dovevo custodirlo e non leggerlo fino alla morte di Liana. Per vent'anni stette là serrato. Era l'oggetto più prezioso della mia casa. Più che uno scrigno inaccessibile era paragonabile a una cosa sacra: nulla, se non fedeltà e timore, impedivano di aprirlo. Vi era però anche un'altra e più umana paura, quella di sapere che la possibilità di leggerlo avrebbe significato che Liana aveva ormai chiuso per sempre i suoi occhi azzurri e che la sua voce da allora in poi ci sarebbe risuonata negli orecchi solo sotto la forma del ricordo. Quel divieto mi pareva tanto ovvio da non essermi mai chiesto il perché di siffatta proibizione. La domanda è sorta dopo. Ora potevo leggerlo, ma dovevo pubblicarlo? Forse le pagine finali in cui è descritto quanto il lettore aveva immaginato prima dell'estensore, vale a dire un'esperienza amorosa che invade il cuore e si trasfonde in gesti, rivelavano un aspetto troppo intimo e per certi versi ambiguo che non doveva essere divulgato. Quei brani manifestano una specie di incoerenza legata a un presente senza passato, né futuro. Dubbi legittimi, ma non tali da mettere in discussione la decisione di far giungere pagine senza uguali a coloro che hanno conosciuto di persona o almeno attraverso gli altri suoi scritti, Liana Millu. Anzi questo testo dovrebbe arrivare anche nelle mani di molti altri lettori i quali hanno ormai a disposizione un'ulteriore, singolarissima, via per accedere al mondo della Shoah, tragico evento che ha contrassegnato in modo incancellabile la storia europea.

Fa', o Signore si chiude con l'espressione di un desiderio profondo:

Fa', o Signore
che io non divenga fumo,
che si disperde, fumo
in questo cielo straniero
ma riposare io possa laggiù
nel mio piccolo cimitero
sotto la terra della mia terra,
dove il sole mi scalderà,
il mare mi cullerà,
il vento mi porterà
i profumi delle riviere
e sarà la pace.


    Ci si poteva attendere che giunta l'ora della morte, che l'ha colta, novantenne, il 6 febbraio 2005, Liana Millu esprimesse il desiderio di essere sepolta in un cimitero come quello. Una lunga vita e una lunga testimonianza sarebbero state riconsegnate in tal modo a quell'aspirazione nata nella notte del Lager. I suoi resti mortali riposano al contrario nel cinerario comune del cimitero di Staglieno: un luogo assolutamente anonimo. La scelta di non aver funerale, di farsi cremare e di confondere le proprie ceneri con quelle di molti altri, sembra costringere a rievocare Birkenau e a ipotizzare in quell'atto un segno estremo di vicinanza alle vittime passate per il camino. Non è così. Nei sopravvissuti albergano anche altri stati d'animo. Si tratta di una realtà grande; essa ci dice infatti che gli scampati sono persone umane con tutta la loro dignità e le loro fragilità. È in questo spirito che trascriviamo larghi stralci di una memorabile lettera di Liana datata 7 luglio 1995. Essa è la spiegazione autentica del luogo del suo estremo riposo.
    «Ieri ho fatto un'esperienza insolita. Sono andata a iscrivermi e impegnarmi alla Socrem (società di cremazione). Ci sono stati molti cambiamenti: dal cimiterino di Langasco alla cerimonia ufficialissima con autorità banda e bandiere a… Confesso, non è che l'andare in fumo mi piaccia. Ma devo sollevare da un peso chi dovrà occuparsene. Così ho deciso […] per il cinerario. Così, io che non posso dire di stravedere per la compagnia, come cenere andrò a mescolarmi con altre ceneri, tutto rigorosamente anonimo. Non ci sarò più, semplicemente. Voglio essere presente come vita, non con l'idea della morte, inevitabile nel funerale. […] Si vede che era scritto che andassi in fumo. Ma non era di questo che volevo scrivere. Le impressioni del grande ufficio - chiaro, razionale - della Socrem e della persone che sono venute a "rinnovare la tessera". Le guardavo: una 50-60 enne, grassa, svelta, con i soliti capelli biondi, un signore dall'aspetto pignolo, occhialuto, autoritario, indaffarato. Li guardavo e li vedevo morti. Quando ho firmato guardavo la mia mano che scriveva, ho avuto la sensazione che appartenesse alla mia ombra. Eravamo lì, col nostro sangue caldo, il nostro cuore che pulsava, il nostro corpo di viventi… ma per un momento è stato come se l'idea della morte, quella che ci aveva guidato fin lì, agisse materialmente, decisamente: la vita si è ritirata, lasciando solo la sua apparenza. "L'iscrizione sono 65 mila lire, più per il cinerario.." l'impiegata - una ragazza indaffarata - faceva i conti. Nel salutarci, nel passo che portava verso la strada - una strada centrale, trafficata, calda di sole - la ri-trasformazione. Sentirsi vivi, essere vivi: che sensazione esaltante! Sono contenta di questa esperienza. Anche se la dispersione nel cinerario sarà molto criticata da qualcuno […] Bè, mi sono decisa. Che ne dite? Pensare che anni fa, pensavo di affittare anche la banda di Sestri: musica e bandiera! Ma per la musica…devo maturare un'idea impossibile, i valzer di Strauss, la «Moldava», il mio amato Mozart… questo sì che sarebbe bello! Nel sud fanno il pranzo di "consolo", perché non ci dovrebbe essere il "concerto di consolo"? Mi diverte pensarci. Bene. Stanotte ho fatto un sogno meraviglioso: ero a Milano, in un quartiere antico illuminato chiaro dalla luna. Come era bello! Mi estasiavo sugli scorci delle strade, le prospettive delle piazze. Mi sono svegliata con una impressione bellissima; dolente però di essermi svegliata. Il chiaro di luna! A Soprabolzano, voglio aspettare il plenilunio e uscire, dall'albergo il panorama delle lontane Dolomiti è amplissimo, bello. Vi racconterò.»
    «Voglio essere presente come vita»; questa consegna si snoda lungo molti itinerari. Alcuni di essi sono contenuti nel Tagebuch. Sono pagine scritte da una persona viva che vuole essere ricordata come tale da parte sia di chi ebbe la sorte benedetta di conoscerla di persona sia di chi ha appreso della sua esistenza solo attraverso gli scritti.

Post scriptum. Nel «concerto di consolo»l'edizione della «Moldava» dovrebbe essere quella diretta da Ferenc Fricsay con l'Orchestra della Radio di Stoccarda. C'è una straordinaria registrazione delle prove. Credo che Liana Millu non abbia, purtroppo, avuto modo di ascoltarla. Ancor giovane (aveva meno di cinquant'anni) ma già consumato dalla malattia che lo avrebbe portato alla morte entro pochi mesi, il grande maestro ungherese lavorava orami con fatica. Il viso non poteva più occultare la sofferenza. All'improvviso, mentre con ineguagliabile competenza tecnica e vivacità poetica stava spiegando la partitura, Fricsay si interruppe e, rivolgendosi agli orchestrali, disse loro che non vi è nulla di più bello della vita.

Piero Stefani